il Fatto Quotidiano, 2 dicembre 2021
Nicola Piovani ricorda De Andrè
Maestro Nicola Piovani, due album decisivi con Fabrizio De André. Non al denaro non all’amore né al cielo, giusto 50 anni fa. E Storia di un impiegato, datato ’73. Il clima in studio?
La seconda volta la diffidenza era minore. Difendevo la concezione orchestrale, a tratti sinfonica di quegli album. De André all’inizio era in parte perplesso, ma anche molto attratto. Durante le registrazioni di Non al denaro ebbi uno scontro con i discografici: l’album si presentava con un colore a tratti classico, diverso dalle mode. Abbandonai il progetto per questi disaccordi e Fabrizio prese le mie parti: fu lui a richiamarmi e a darmi totale fiducia, anche con un po’ di spericolatezza, ripensandoci. Per l’Impiegato invece tutto filò più liscio: Non al denaro aveva fatto un ottimo incasso, l’unica regola sacra dei discografici, che cominciarono a darmi credito.
Chi è tra voi due Il suonatore Jones?
Fabrizio – e per certi versi anch’io – ci riconoscevamo in quella proiezione poetica. Ma nessuno dei due è finito “con i campi alle ortiche”. Comunque la passione per l’alcol riguardava più De André: io non bevo superalcolici…
Il primo incontro?
A Genova, a casa sua: mi aveva telefonato proponendomi gli arrangiamenti del progetto Spoon River. Restai da lui qualche giorno, chiacchierammo molto, le sue idee anarchiche facevano scintille col mio sessantottismo. Si svegliava piuttosto tardi. Io, più mattiniero, a tempo perso musicai la poesia Un medico. Gli piacque, mi propose di lavorare anche al disco.
Il numero dei personaggi di Non al denaro. I discografici ne indicavano dieci, ne conosciamo otto.
Può darsi si parlasse di musicarne dieci, e che nei comunicati siano rimaste le note provvisorie: succede spesso.
In studio, i padri di Marina Rei e di Rita Marcotulli.
Vincenzo Restuccia: uno dei migliori batteristi su piazza. E con il mago Sergio Marcotulli passammo una domenica a montare un nastro al contrario per costruirci sopra Un ottico, fra suoni lisergici e mazurke campagnole.
Un ottico: profezia del virtuale?
Del brano mi interessava molto il finale: la chiusura in un mondo sonoro che non guardava alla psichedelia bensì al liscio romagnolo, alle radici nostrane. Non rida: io, giovanissimo, ci vedevo un connotato antimperialista!
Fernanda Pivano. Vi frequentava, ai tempi di Non al denaro?
Veniva e ascoltava i brani non finiti. Quando sentì Un giudice, eravamo preoccupati che non gradisse “Il cuore troppo vicino al buco del culo”. Stava per passare quel verso: De André, il produttore Roberto Dané e io prendemmo delicatamente a tossire per coprire la parola birichina. Ma la Pivano fu spiritosissima e apprezzò molto quella soluzione.
Come concepiste gli album?
Lavorammo a stretto braccio, quotidianamente. Fabrizio era una guida sicura, infallibile, nelle divergenze aveva quasi sempre ragione, ma era prontissimo a cambiare idea. Gli album furono realizzati con i criteri di sceneggiature musicali.
All’epoca la critica militante bocciò l’Impiegato. La sinistra voleva delegittimare il De André post-68?
Con gli anni ho imparato a capire i critici: le stroncature di Fellini 8½, de La vita è bella, o de La Bohème ormai fanno curriculum per quelle opere. Certo, ci sono anche critici fondamentali. Però pochi. Molti invece gli stroncatori che danno pagelle, lodano e bacchettano, da una cattedra che si sono assegnati da soli.
Parlaste della polemica innescata da Gaber per l’Impiegato?
Mai. Neanche la conosco.
“Voi non avete fermato il vento/ gli avete fatto perdere tempo”. Faber fu buon profeta?
Faber era un poeta, non un profeta. Pensavamo allora fosse un cammino con mille difficoltà, invece sono milioni. Ma, lentamente, la civiltà progredisce, anche grazie a sognatori e utopisti.
Dialogaste sulla scomodità del Bombarolo?
Sì, ma non ce ne preoccupammo minimamente. Ci coinvolse di più la polemica sulla canzone del giudice nano, che ai tempi tutti identificavano ironicamente con Fanfani.
La magia di Verranno a chiederti del nostro amore.
Ero al piano, lui cantava su pista separata. Questo dava spontaneità all’esecuzione. Ci passammo un pomeriggio. Poi Faber registrò di nuovo buona parte della voce e su quella base io scrissi l’arrangiamento, archi, flauto e qualcos’altro.
Perché la collaborazione non proseguì?
Ci parlammo con estrema franchezza e amicizia. Lui stava imboccando la direzione di un suono essenziale, voci chitarre e poco più. Io cominciavo a lavorare nel cinema, con la possibilità di sperimentare orchestrazioni e partiture complesse. Credo di aver avuto in comune con Fabrizio il libero pensiero musicale: seguire la vocazione più che il mercato. Ci siamo sempre sentiti, negli anni, con molta affettuosità.
A cosa sta lavorando ora?
A un’opera, Amorosa presenza. In scena a Trieste in gennaio, virus permettendo. E mi preparo per cinque concerti all’Auditorium di Roma, fra Natale e Capodanno.