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 2021  dicembre 02 Giovedì calendario

Niente soldi per San Marco e il Mose in ritardo. A Venezia le cose non vanno bene


VENEZIA – Tre gabbiani fanno il bagno nel fosso allagato che ormai isola la Basilica di San Marco. Con il becco scavano nel sale che incrosta le pietre scoperte ai piedi delle colonne: grattano sotto i masegni accatastati sulla piazza e tra i tubi delle pompe idrauliche fuori uso. Uno stormo di colombi supera la porta della chiesa per beccare le briciole che un turista ha perso sui marmi fradici, sbiancati dalla salsedine. Nessuno al mondo avrebbe osato crederci, ma il cantiere aperto per salvare il cuore di Venezia è di nuovo bloccato e deserto.
Nel novembre 2019, dopo la seconda acqua alta più distruttiva della storia, lo Stato aveva promesso che il simbolo più fragile della civiltà europea non sarebbe stato mai più abbandonato alle mareggiate. Un altro esempio di istituzionale «bla, bla bla»: le imprese incaricate di proteggere la chiesa, circondandola con barriere di vetro, hanno ora sospeso i lavori perché lo Stato non le paga. «Sufficienza e indifferenza – dice Carlo Alberto Tesserin, primo procuratore di San Marco – sono intollerabili. Ogni giorno il mare sgretola un pezzo della basilica bizantina. L’urgenza di azioni immediate dovrebbe essere evidente per chiunque. Due anni perduti, sotto gli occhi della comunità internazionale, sono già uno scandalo: prendere atto che si insiste nel trattare questo luogo come un qualsiasi posto senza valore, assume il profilo del crimine». Vani gli appelli per «accelerare la corsa contro il tempo» del patriarca Francesco Moraglia, in queste ore «incredulo e indignato». San Marco oggi è come un malato abbandonato con il cuore aperto in una sala operatoria che chiude. La temporanea diga in vetro, dopo un anno di kafkiano scontro sulla sua estetica, avrebbe dovuto essere ultimata entro l’autunno. I veneziani, più realisticamente, speravano in un “regalo di Natale”. Macché. «Ormai non se ne parla nemmeno per Pasqua – dice il proto della cattedrale Mario Piana – e temo nemmeno per l’estate. Mentre le acque medio-alte diventano quasi quotidiane». L’approvazione dell’ultima variante al progetto risale a marzo. In agosto consegna dei lavori e apertura del cantiere. Quattro mesi per finire l’opera: 3,8 milioni di finanziamento pubblico, 700 mila euro di anticipo. «Mai visto un centesimo – dice Devis Rizzo, presidente dell’impresa Kostruttiva, che condivide l’appalto con la Renzo Rossi Costruzioni – e da settembre anticipiamo noi i soldi per operai e fornitori. Ci siamo assunti pure le fideiussioni per assicurare cantiere e finanziamenti. Abbiamo inviato decine di solleciti: nessuno ha mai nemmeno risposto». Così l’ultima lettera: «Ci spiace, non possiamo proseguire, solo nell’Italia peggiore si può ancora giustificare una simile incuria».
Dietro, lo sfacelo innescato dallo scandalo-Mose. Ad agosto il provveditore triveneto alle opere pubbliche è stato sospeso. L’attuale facente funzioni, nominato dal ministero, non autorizza atti a rischio-nullità davanti alla Corte dei conti. Il Consorzio Venezia Nuova, ex monopolista degli appalti in Laguna travolto da tangenti e processi, tenta intanto di evitare il fallimento e di uscire dal concordato preventivo con le banche. «Una montagna di burocrazia, di vendette personali e di paralisi amministrativa – dice un dirigente del Commissariato al Mose – condanna San Marco e Venezia alla catastrofe». Al resto ci pensano mare, clima sconvolto e dighe mobili già insufficienti per tenere a galla basilica e città. La chiesa è finita sott’acqua perfino lo scorso giugno: mai successo d’estate, in oltre mille anni. Nel 2020 è stata allagata 120 volte, un giorno ogni tre. «Il Mose non sarà ultimato prima del 2023 – dice Alberto Vitucci, memoria delle cronache veneziane – ma nessuno garantisce che la corrosione sottomarina non lo blocchi prima. Oggi le dighe mobili vengono sollevate con maree da 130 centimetri, a regime si scenderà a 110. Tra 74 e 76 però San Marco si allaga, il resto dell’insula marciana resiste solo fino a quota 85. Nessuno spiega perché, spesi 6,5 miliardi per il Mose, non si trovano pochi spiccioli per salvare San Marco e 50 milioni per proteggere il resto della piazza». Anche qui: tempi stimati in 3 anni di lavoro, ma approvato il progetto per isolare l’area dalle maree e per alzare le rive di 90 a 115 centimetri, sono scomparsi i finanziamenti. Nel 2019 le barriere in vetro erano state ideate per «salvare subito San Marco», in attesa del pieno funzionamento del Mose e dell’innalzamento delle rive marciane. Dopo due anni, il «subito» ricorda il «fine pena mai»: la prima pietra delle dighe mobili risale a 17 anni fa e il resto del piano per l’insula marciana è bloccato. Allarme e sconcerto coinvolgono pure gli scienziati. «Non si può più aspettare – denuncia l’ultimo rapporto Ipcc – il surriscaldamento costringerà ad alzare il Mose 260 volte all’anno. Impensabile, a meno di non finire di distruggere anche la Laguna. Occorre un approccio nuovo alla salvaguardia». Anche perché ogni chiusura delle dighe costa 350 mila euro, impone ore di preavviso, richiede una potenza energetica oggi assente, interrompe la navigazione, sconvolge l’ambiente e mobilita centinaia di persone, pure in cronico ritardo di stipendio. «L’agonia di San Marco – dice Tesserin – è il simbolo della morte di Venezia e il concentrato degli scandali in buona fede che frenano l’Italia». Sapere che l’eredità della corruzione è l’indifferenza, fa ancora più male.