Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2021  dicembre 01 Mercoledì calendario

Massacri americani


Negli anni Cinquanta, anzi, fino alla metà dei Sessanta, l’Indonesia aveva avuto un ruolo internazionale assai importante. Poi, dopo il 1966, i leader di quel paese sparirono dalla ribalta mondiale. Accadde qualcosa per cui l’Indonesia perse ogni rilevanza e nessuno se ne occupò più, se non distrattamente, nota Vincent Bevins in una delle pagine iniziali di Il metodo Giacarta, edito da Einaudi. Perché? L’Indonesia aveva, alla metà degli anni Sessanta, il più grande partito comunista del mondo, dopo quello russo e quello cinese. E gli Stati Uniti ricorsero a «estremi rimedi» per evitare, dissero, che quei comunisti andassero al potere (come era accaduto, appunto, in Russia e in Cina). Gli Usa incoraggiarono tra il 1965 e il 1966 uno sterminio dei comunisti indonesiani in cui perse la vita circa un milione di persone. Per Washington, scrive Bevins, le cose andarono bene: nessun soldato americano morì e «in patria nessuno corse pericoli». Fu, per gli Usa, un «assoluto successo».
La strategia statunitense nel Sud-Est asiatico era in gran parte improntata alla «teoria del domino» secondo cui se in Asia un Paese fosse «caduto» in mano ai comunisti, il resto della regione avrebbe avuto un destino del tutto simile. L’Indonesia era considerata la tessera più importante del domino. E si procedette con metodi più che drastici. Il pretesto per i massacri fu offerto, il 30 settembre del 1965, da un minuscolo gruppo attivo all’interno delle forze armate indonesiane che rapì e giustiziò sei alti ufficiali. Gli autori dell’eccidio occuparono poi alcune zone del Paese sostenendo che intendevano prevenire un colpo di Stato da parte dei settori delle forze armate ostili al regime, ad un tempo filosovietico e filocinese, di Sukarno (che, però, si dissociò immediatamente dal loro operato). A quel punto, dall’interno dell’esercito, una fazione ben più consistente, sotto le direttive di Suharto, accusò i comunisti di essere all’origine delle sanguinose azioni del 30 settembre. E diede il via al massacro dei comunisti che si concluse con un’ecatombe e con l’ascesa al potere dello stesso Suharto. Questi instaurò una dittatura filoamericana destinata a restare in vita per trent’anni. Detto per inciso, la «facilità» con cui fu portata a termine l’operazione incoraggiò gli Stati Uniti a compiere, in Vietnam, un errore destinato a gravare sulla storia americana. Ritennero, gli Stati Uniti, che anche a Saigon, ricorrendo a un’escalation di guerra, sarebbero venuti a capo dei vietcong. Sterminandoli se era necessario. E andarono incontro ad una sconfitta senza eguali.
Il «metodo Giacarta» ebbe come precedente l’analogo «successo» americano nel paese più importante dell’America Latina: il Brasile. Qui nel 1964 fu destituito Joao Goulart e, a seguito di uccisioni pur di minore entità di quelle indonesiane, fu instaurata una dittatura militare che ebbe una durata più che ventennale. Qualche tempo fa sono venuti alla luce documenti segreti dell’amministrazione americana da cui si evince come sia le Forze armate brasiliane che gli Stati Uniti in quel ventennio furono consapevoli dell’eliminazione sistematica degli avversari del regime dittatoriale. Anche stavolta gli accadimenti brasiliani fecero scuola a Washington per l’adozione di strategie, in altri Paesi dell’America Latina (primo tra tutti il Cile), che avrebbero danneggiato non poco la reputazione degli Stati Uniti. E, come conseguenza, resero sempre meno efficace (o eccessivamente dispendiosa) la loro azione politica nell’intero continente.
Per contestualizzare il periodo a cui Bevins fa riferimento, la metà degli anni Sessanta, è utile ricordare con Gianluca Falanga – La diplomazia oscura (Carocci editore) – che alla fine del decennio precedente erano state poste le condizioni «per un processo di distensione internazionale, pur sempre entro i margini della rigida divisioni in blocchi dell’Europa». Di conseguenza la guerra fredda entrò a quel punto «in una delicata fase di evoluzione». Ma non all’insegna di una generale pacificazione. Anzi. Il quindicennio centrale della guerra fredda (1960-1975) «si presentò», secondo Falanga, «come il periodo di maggiore instabilità internazionale e il momento di scontro più esasperato fra i blocchi sul piano della guerra occulta». Mentre il segno della politica di quel periodo era votato alla cooperazione internazionale, aggiunge Falanga, «al progressivo allentamento della tensione corrispose un netto inasprimento dell’impiego di forme di lotta sotterranea, anche dirette verso l’interno del proprio campo, per annientare tendenze centrifughe (a Est l’invasione sovietica della Cecoslovacchia e la repressione delle proteste operaie in Polonia, a Ovest il golpe militare in Grecia e le strategie di condizionamento e stabilizzazione dell’Italia assunte per arginare i comunisti)». Ma Indonesia e Brasile furono usati per sperimentazioni assai particolari. Soprattutto l’Indonesia, dove fu attuato un «programma di omicidi di massa» che in un certo senso, secondo Bevins, ha «plasmato il nostro mondo».
Bevins si guarda bene dal sostenere che la Guerra fredda sia stata vinta dagli Stati Uniti «grazie agli omicidi di massa». Mette in chiaro, l’autore, che la guerra fredda finì «soprattutto a causa delle contraddizioni interne del comunismo sovietico e del fatto che i suoi leader in Russia involontariamente distrussero lo Stato». Come del resto sostiene anche Eric Hobsbawm in Il secolo breve (Rizzoli). Si limita, Bevins, ad affermare che «la rete informale di programmi di sterminio, organizzata e giustificata da princìpi anticomunisti, ha avuto un ruolo molto importante nella vittoria degli Stati Uniti». E che «quella violenza ha profondamente influenzato il mondo in cui viviamo oggi».
Tutto viene fatto risalire a un personaggio, Frank Wisner, che all’epoca delle vicende brasiliane e indonesiane era del tutto fuori gioco (anzi per quel che riguarda il «metodo Giacarta» non era più in vita). «Wiz» – questo il suo nomignolo – era nato nel 1909 da una ricca famiglia di proprietari terrieri del Missouri ed era cresciuto in una situazione familiare «privilegiata e protetta». Aveva poi studiato all’Università della Virginia, dove era stato ammesso nei «Sevens», «una società segreta così estrema che rivelava i nomi dei propri membri solo alla loro morte». Si laureò in legge e divenne presto un giovane avvocato di successo in un importante studio legale di Wall Street. «Irrequieto e spinto da un forte senso di impegno morale», si arruolò in marina alcuni mesi prima dell’attacco di Pearl Harbor (dicembre 1941). Fu impiegato quindi nell’Office of Strategic Services (Oss), il controspionaggio americano e, dopo un periodo di apprendistato, fu mandato al Cairo, poi in Turchia, infine nel 1944 in Romania, dove fece un’esperienza che gli cambiò la vita. Era un ragazzo brillante e, compatibilmente con i tempi di guerra, faceva vita di mondo. Non solo questo ovviamente.
In Romania conquistò il rango di responsabile delle operazioni di intelligence nell’Europa sudorientale, proprio nel momento in cui quel Paese, sotto la spinta del re Michele, si unì agli Alleati e dichiarò guerra ai tedeschi (23 agosto 1944). Wisner sovrintese alla delicatissima missione per il rimpatrio di oltre mille aviatori che erano stati abbattuti dai nazisti mentre erano in missione contro i giacimenti petroliferi rumeni. Il suo fu un successo notevole e a Washington iniziarono ad apprezzarlo sempre più. Ma, racconta Bevins, «tra le sue frequentazioni c’erano anche agenti sovietici più esperti di lui». Quando lasciò il Paese «si scoprì che le spie russe avevano infiltrato l’intera operazione». Ma questo venne alla luce qualche tempo dopo.
Dopo un ultimo, impegnativo soggiorno a Wiesbaden, in Germania, Wisner rientrò in patria e immediatamente tornò a Wall Street per riprendere l’antico lavoro. Ma per poco. Nel 1947 il segretario di Stato Dean Acheson lo richiamò in servizio e gli affidò una posizione di responsabilità per le «aree occupate». Ed è in questo contesto che a lui toccò il compito di porre le basi per la nascita della Cia. Wisner, racconta Bevins, aveva sangue blu, «ma la maggior parte dei ranghi della Cia ai suoi albori proveniva da strati della società americana ancora più elevati del suo». Gente che guardava dall’alto in basso chiunque non provenisse da un’università «giusta» o non avesse fatto parte della «giusta società studentesca segreta». Tutti erano ferventi anticomunisti. Wiz, però, forse a causa dell’esperienza in Romania, lo era più degli altri. Arthur Schlesinger Jr lo ricordava così: «Io non ero un grande ammiratore dell’Unione Sovietica… ma Frank era un po’ eccessivo, persino per me».
Ai ragazzi che venivano arruolati nei servizi segreti, ha scritto Paul Nitze, «veniva insegnato che far fuori il nemico era la cosa giusta da fare». Nei corsi si citava Tucidide per il quale nella cultura greca esistevano dei confini per come ci si doveva comportare nei confronti degli altri greci, ma non c’erano limiti a ciò che si poteva fare ai persiani, considerati «barbari». E i comunisti, concludeva Nitze, «erano barbari».
Wisner reclutò agenti persino tra gli ex nazisti e si produsse in Europa (ma non solo) in operazioni ciniche e spettacolari. Finché il suo destino non incrociò quello di un’altra talpa russa, il celeberrimo agente britannico Kim Philby, cosa che lo portò ad una rapida emarginazione e, nel 1965, al suicidio. Aveva all’epoca cinquantasei anni. Ma i suoi metodi gli sopravvissero, assieme al mito delle sue imprese degli anni Cinquanta. Quantomeno finché, molto tempo dopo, divennero chiari i contorni dell’«affaire Philby». In ogni caso le operazioni in Brasile e in Indonesia furono condotte come se al comando ci fosse ancora lui.
Bevins ad un certo punto del libro si giustifica del fatto d’aver dedicato poco spazio alla descrizione delle atrocità compiute dai regimi comunisti. In parte – spiega – perché sono molto più conosciute di quelle brasiliane e indonesiane. Ma soprattutto perché, a suo avviso, «non viviamo in un mondo costruito direttamente dalle purghe ordinate da Stalin o dalle carestie di massa causate da Pol Pot». Bensì in un mondo edificato almeno parzialmente «sulla violenza della guerra fredda sostenuta dagli Stati Uniti».
E la memoria storica? Paesi come il Cile e l’Argentina hanno fatto – dopo esperienze analoghe a quella brasiliana – quello che l’autore considera un «buon lavoro» per riunificarsi in un processo di riconciliazione nazionale. Altri Paesi, come il Brasile, «non hanno però lavorato altrettanto bene». L’Indonesia per quel che la riguarda «non ha mai fatto niente del genere». Non ne ha neppure «avvertito la necessità».
Si può ipotizzare a questo punto che le attività anticomuniste statunitensi abbiano «distrutto una serie di modi alternativi di sviluppo». Quantomeno nelle immense periferie dell’impero. Il movimento del Terzo Mondo si è disgregato in parte a causa dei propri fallimenti, ma è stato anche «schiacciato». I Paesi terzi stavano provando a fare «qualcosa di molto, molto difficile». E di sicuro «il fatto che il più potente governo della storia abbia cercato di fermarli non li ha aiutati».
Adesso è difficile dire in che modo avrebbero potuto dare «una nuova forma al mondo», se sarebbero stati veramente in grado di «sperimentare e costruire qualcosa di diverso». Forse i Paesi in via di sviluppo sarebbero riusciti a riunirsi, a fare pressione per cambiare le regole del capitalismo globale. Forse molti di questi Paesi non sarebbero stati capitalisti. In termini puramente economici oggi, sostiene Bevins, «siamo tutti convinti che le nazioni in via di sviluppo abbiano perso la possibilità di mettersi in pari con le economie del Primo Mondo intorno all’inizio degli anni Ottanta» quando l’esplosione del debito, la svolta verso un «aggiustamento strutturale neoliberista» e la globalizzazione determinarono il percorso che stanno ancora seguendo. Nel sistema attuale, riconosce Bevins, gli unici esempi reali di grandi Paesi del Terzo Mondo diventati ricchi dopo il 1945 sono la Corea del Sud e Taiwan. Ma è evidente che questi Paesi hanno beneficiato dell’aver «goduto di esenzioni speciali dalle regole dell’ordine mondiale» a causa della loro importanza strategica nella guerra fredda. Compito dello storico è però di indagare circa la possibilità che avrebbero avuto i Paesi terzi di imboccare, all’epoca, vie alternative. E ha ragione Bevins nel sostenere che è giunto il momento di aprire questo dossier.