Corriere della Sera, 1 dicembre 2021
La California non piace più
Union Square, piazza turistica e commerciale nel cuore di San Francisco, è stata presa d’assalto dieci giorni fa da una «flash mob» di gang giovanili all’assalto dei negozi di lusso. Il giorno dopo, sull’altra sponda della baia, ottanta giovani hanno dato vita a un saccheggio organizzato: di preferenza griffe celebri. Il ricco bottino ha scatenato l’emulazione, le «flash mob» si sono estese fino all’altro capo della California, dove il celebre quartiere di Beverly Hills non è stato risparmiato.
Da San Francisco a Los Angeles, alcuni saccheggiatori si sono accaniti in particolare sulle vetrine di Louis Vuitton. La stragrande maggioranza sono a piede libero e resteranno impuniti. Nella sola città di San Francisco mancano 400 agenti di polizia. Riempire gli organici è arduo. La città del Golden Gate celebre per il suo orientamento radicale ha eletto un procuratore generale, il 41enne Chesa Boudin, che esibisce ostilità verso le forze dell’ordine. Figlio di terroristi rossi (membri della milizia armata Weather Underground, quarant’anni fa i suoi genitori furono condannati per l’omicidio di tre agenti), Boudin ha fatto campagna elettorale promettendo di non perseguire «i reati senza vittime, con cause socio-economiche» che secondo lui includono lo spaccio di droghe.
I costi della sicurezza
Ormai solo il 19% dei ladri nei negozi vengono fermati. La catena di farmacie-supermercati Walgreens denuncia: i furti si sono quintuplicati, i costi per la sicurezza privata sono 50 volte superiori ad altre zone d’America, e molti punti vendita vengono condannati alla chiusura. Michael Shellenberger, che ha coniato il neologismo San Fransicko (giocando sulla parola «sick», malato), cataloga un lungo elenco di mali che gli abitanti della città patiscono da anni, e che i turisti scoprono con angoscia quando sbarcano per la prima volta nel centro storico. San Francisco è occupata in permanenza da accampamenti di senzatetto, uno spettacolo di miseria e devianza sconcertante nella «Dubai sul Pacifico» che ospita i miliardari della Silicon Valley. La povertà si accompagna a un disastro sanitario, homeless che defecano sui marciapiedi, siringhe abbandonate ovunque, epidemie di epatite.
La California per decenni ha incarnato il meglio dell’American Dream. Nel 1900 era quasi deserta, aveva la popolazione del Kansas; poi nel «secolo americano» è stata la meta di un’invasione che ha moltiplicato per venti i suoi abitanti (oggi quasi 40 milioni). Da qui sono nate a cicli periodici le grandi rivoluzioni creative che hanno ridisegnato la società, la cultura, l’economia: dalla Beat Generation alla Summer of Love del 1967, dal cinema all’elettronica, da Internet all’auto elettrica.
La scelta di Elon Musk
Nessun altro luogo al mondo sembrava in grado di concentrare così tanti ingredienti favorevoli all’innovazione. Oggi il modello-California è in crisi. Lo conferma la scelta di Elon Musk di abbandonare la Silicon Valley per trasferirsi in Texas: il rivale storico, vetrina del neoliberismo e paradiso fiscale repubblicano. Musk sta delocalizzando interi segmenti della sua Tesla in Texas, Cina e Germania; guida un esodo di start-up tecnologiche che abbandonano la West Coast.
La fabbrica Tesla di Shanghai passerà da 15.000 a 19.000 dipendenti, in controtendenza rispetto agli scenari di «divorzio economico» tra America e Cina: Musk fabbrica nella Repubblica Popolare mezzo milione di vetture elettriche, quasi l’equivalente di quante ne ha vendute l’anno scorso in tutto il resto del mondo. In Germania ha costruito uno stabilimento da 7 miliardi di dollari a 150 chilometri dalla Wolfsburg sede della Volkswagen. Ma è in Texas che Musk sposta il quartier generale e la parte pensante, creativa, del suo impero. Volta le spalle alla California un marchio simbolo dell’innovazione, che ha catturato la fantasia della «generazione sostenibile», e in Borsa vale oltre dieci volte la General Motors.
Musk è un esempio raro di industriale tecnologico di destra. Ma la sua scelta di ripudiare la California descrivendola come un inferno per il business – «troppe tasse e troppa burocrazia» – è la punta dell’iceberg. Il Texas, con il suo Stato leggero e la pressione fiscale ai minimi, da anni ha sottratto alla West Coast il ruolo dell’Eldorado americano. Tra il 2010 e il 2020 ha visto aumentare di quattro milioni i suoi abitanti, oggi 30 milioni, e il 42% si sono trasferiti proprio dalla California. L’immagine dello Stato di «cowboy e petrolieri» è superata, Austin (capitale del Texas) contende a San Francisco le start-up tecnologiche.
Le contraddizioni
L’argomento tradizionale della sinistra californiana – più tasse e più Stato servono a combattere ingiustizia e diseguaglianze – è contraddetto dai fatti. La California ha il 12% della popolazione nazionale ma la metà di tutti gli homeless d’America. Ha destinato ai senzatetto 12 miliardi di dollari nell’ultimo bilancio, eppure l’enorme spesa pubblica non dà benefici visibili. Ora si moltiplicano anche sui media progressisti le condanne contro una religione del lassismo, di cui le «flash mob» degli ultimi giorni sono un risultato. Bret Stephens sul New York Times avverte che le morti per overdose a San Francisco si sono quadruplicate in sei anni e parla di «collasso della civiltà sulla West Coast». James Hohman sul Washington Post ricorda che un trentennio fa il partito democratico americano guarì dalla vocazione alla sconfitta solo quando prese le distanze da una cultura di «tolleranza verso il crimine».