la Repubblica, 1 dicembre 2021
Intervista a Cesare Cremonini
BOLOGNA – A casa di Cesare Cremonini sui colli bolognesi, quelli cantati più di venti anni fa in 50 Special, c’è soddisfazione per il lavoro fatto e tanta frenesia perché ora inizia un nuovo capitolo. «Il nuovo Ce, dico io». I pacchetti di sigarette sono stati sostituiti dai vaporizzatori.
«Quando finisco un disco sono sempre in condizioni pessime».
L’edificio qui accanto diventerà il suo studio. «I vicini non ne potranno più, il nuovo album lo conosceranno già a memoria», sorride Cesare, 41 anni. Il nuovo viaggio inizia dal volo di un Colibrì, il singolo uscito oggi, in cui canta “Quando ho immaginato il futuro c’eri tu”. «È nato tutto da visioni notturne, perché queste visioni possono venire solo di notte.
Un colibrì, simbolo di purezza e della natura. Un’immagine non violenta, da cui scaturisce il concetto che tiene insieme tutto l’album, che si intitola La ragazza del futuro (in uscita il 25 febbraio 2022, ndr ). Eravamo chiusi in casa, senza poter uscire, una sensazione alienante in cui non puoi più toccare con mano il domani, il centro della società sembrava stesse sprofondando. Da qui è nata l’esigenza di immaginare un futuro per reagire a quello che stiamo vivendo. E non potevo che farlo pensando a un album. Che mi sto divertendo a comunicare anche sui social con un modello visivo un po’ immaginifico, fuori contesto rispetto a quello che vedo in giro tra sponsorizzazioni di aziende, scarpe e macchine. Ma del resto mi sento sempre un pesce fuor d’acqua».
Un album intero secondo alcuni oggi è quasi antistorico.
«Dal punto di vista del mercato e di immaginario l’album vive un momento difficile. Ma secondo me è così che si calcola il peso specifico che può avere l’autorevolezza di un artista se non si limita a creare playlist. È l’artista che deve proporre modelli. Trovo che un album costruito con un concetto migliori il sistema. In una comunicazione frammentata e iper-rapida di ascolti arrivare è facile, ma c’è anche una rapida disgregazione di quello che fai».
L’algoritmo si può anche gestire: Adele ha imposto a Spotify la riproduzione del suo album senza la funzione che pesca a caso tra brani.
«Quando è uscito ho pensato che Spotify fosse più bella quel giorno. In fondo anche gli ultimi due dischi rap importanti usciti in Italia, Salmo e Marracash, sono progetti legati all’album e non alle singole canzoni.
Voglio liberarmi da questa ossessione del tempo. La durata delle canzoni, della carriera, dei contratti, dei programmi tv, di Sanremo. Anche in questo mi sento un oggetto non identificato. Come ai tempi dei Lùnapop. Sembravamo venuti da Marte. Sono sempre stato un alieno, anche per l’ambiente sociale da cui provengo, con un padre medico che non ascoltava musica e una mamma insegnante di lettere che voleva farmi leggere Leopardi e studiare pianoforte invece di farmi ascoltare i miti della sua generazione».
Una sensazione che le è rimasta?
«Faccio parte di una non generazione musicale, tra Novecento e anni 2000, senza un contesto di colleghi della stessa età che ti sostenga. I cambi generazionali che ho dovuto affrontare io non sono quelli che affronteranno i nuovi cantautori. Ero punk da questo punto di vista e come il punk potevo essere spazzato via.
Infatti il brit pop e rock che seguivo poi è finito e mi sono ritrovato di colpo a portare avanti la tradizione cantautorale italiana che avevo nelle viscere. E vedere i posti vuoti nel primo tour da solista è stato un trauma per un ventenne. Ma uno di quella generazione che oggi fa sette stadi e un evento a Imola (il tour parte il 9 giugno 2022 da Lignano Sabbiadoro, ndr ) è una bella storia da raccontare. Ci ho messo venti anni.
La cosa che mi ha permesso di avere una carriera lunga è stata saper maneggiare la musica da musicista».
In “Colibrì” si sente l’influenza di Lucio Dalla. A lui dedicherà il suo debutto alla regia cinematografica.
«Lo so, sono un pazzo. Voglio raccontare un momento particolare della sua vita, quando alla fine dei 70 abbandona il poeta più novecentesco che la mia Bologna abbia partorito, ovvero Roversi, perde sua madre e decide di scrivere canzoni: nelle biografie si racconta che partì per le isole e scrisse Com’è profondo il mare.
Voglio capire cosa è successo, perché quella per me è la canzone delle canzoni e ho bisogno di sapere come si fa. Sarà il contrario di un biopic, ma voglio lavorarci con calma, c’è tempo».
Con i Lùnapop avete registrato anche in altre lingue, come vede il successo mondiale dei Måneskin?
«Allora funzionava così: vendevi un milione e mezzo di copie in Italia? La casa discografica spagnola ti proponeva al mercato latinoamericano. Oggi trovo molto affascinante quello che sta succedendo a loro con la globalizzazione dello streaming. Mi ricorda quello che ho vissuto da ragazzino, qualcosa che sfuggiva alle regole del mercato. Tra l’altro ho il mio preferito nei Måneskin, il chitarrista, mi fa impazzire».
Nella sua autobiografia “Let them talk” definiva il pianoforte un “bellissimo angelo nero”. Oggi in che rapporti siete?
«Lo chiamavo così nella prima poesia che scrissi da bambino, lo odiavo perché mi toglieva tempo, studiare pianoforte classico non è proprio una passeggiatina. Oggi quando mi siedo lì so di essere nel posto in cui mi sento meglio al mondo».