La Stampa, 1 dicembre 2021
La Germania ha condannato un iracheno all’ergastolo per «genocidio, crimini contro l’umanità che hanno causato la morte, crimini di guerra»
La sentenza del tribunale di Francoforte è importante perché fissa un delitto nel tempo, impedisce che, con l’accumularsi inutile degli anni, sia troppo tardi per poter vivere la sofferenza fatta alla vittima, per poter indignarsi o per piangere. E la realtà diventa troppo vecchia per essere reale. Taha al-Jumailly, iracheno, che nel 2013 scelse di condividere la fanatica sagra della morte e la bestemmia della guerra santa del Califfato, è stato condannato dal tribunale tedesco all’ergastolo per «genocidio, crimini contro l’umanità che hanno causato la morte, crimini di guerra». In Germania era arrivato nel 2019 travestito da profugo, sperando di nascondere il suo passato di combattente del jihad e i suoi delitti. Per la biografia di un assassino questo può bastare, per lui parlano gli irriferibili orrori. Dietro di lui, che si nasconde il volto in aula, c’è una bambina crocefissa alle sbarre di una finestra sotto il sole di Falluja.
Chi era la sua vittima e come è stata uccisa l’ha raccontato la madre, una donna yazida, venduta come oggetto sessuale, innumerevoli volte violentata. Con la figlia, bimba di cinque anni, era stata comprata al mercato degli schiavi nel 2015. Non era un posto nascosto, i jihadisti non si nascondevano, pubblicavano perfino dei regolamenti che disciplinavano la vendita delle donne yazide. Erano i tempi del trionfo del Califfato e gli yazidi, gli «adoratori del diavolo», secondo la feroce cosmogonia dei fanatici, erano al primo posto nei loro progetti di purificazione del mondo, perché i più vicini, i più indifesi. Si dava loro la caccia sulla montagna del Sinjiar come fossero bestie selvatiche, prede da vendere appunto al mercato. La bambina, ha raccontato la madre in tribunale, aveva fatto pipì, sporcando il materasso. «Il padrone», dopo averla picchiata, la incatenò a una finestra all’esterno della casa. La temperatura era di cinquanta gradi, la bambina morì dopo atroci sofferenze. Questa donna è stata gettata con la sua piccola nel mulino della storia del terzo millennio, dal cui setaccio esce la farina di un pane così amaro. Sì, tutto è avvenuto, per questo è difficile anche solo immaginarlo. Ascoltando il suo racconto spezzato, incerto, in «kurmandji», uno dei dialetti curdi, la sola lingua che conosce, verrebbe da gridare che la sofferenza una volta sofferta, non deve più esistere, si spera di non dover ascoltare le parole che le danno la forza di intingere la memoria nel dolore. Non so se in questo caso la sentenza adempia al compito di un autentico atto catartico. Se perché questo avvenga noi spettatori dobbiamo pagare un prezzo così alto. Abbiamo ottenuto giustizia, ma siamo qui svuotati da una depressa e raggelante impotenza, stanchi e disillusi dell’uomo.
Il condannato al momento della lettura della sentenza ha perso conoscenza. Questo svenire è quanto ci resta di lui, meno di un’ombra. In fondo alla sua raccapricciante parabola si attendeva forse, una confessione, un rimorso.
La parola genocidio è da usare con infinita moderazione, quasi reggendola sulla punta delle dita. Dobbiamo impedire che perda di significato, si banalizzi. Ciò che lo individua implacabilmente è la sua tragica semplicità. La vittima e il carnefice, il buono e il cattivo, non si confondono nemmeno per un attimo. Persone vengono catturate, torturate, rese schiave, uccise in modo bestiale. Non c’è nessuna tonalità politica ideologica o religiosa che ombreggi questa feroce definitiva semplicità. Così avvenne in Iraq. Per la prima volta a Francoforte la parola è stata applicata al martirio degli yazidi.
La Germania per giudicare Al Jumailly ha applicato il principio della «competenza universale» che attribuisce a uno Stato il diritto di perseguire delitti di tale gravità anche se sono commessi fuori dal territorio nazionale. Il massacro e la tortura degli yazidi che in Germania contano una comunità numerosa di esuli, entrano così nel diritto penale internazionale.
Nadia Murad, la sopravvissuta simbolo della lotta degli yazidi per veder riconoscere la loro tragedia, ha invocato la creazione da parte delle Nazioni Unite di una sezione della Corte penale internazionale che persegua e giudichi i delitti dell’Isis. Una sorta di Norimberga del jihadismo che dovrebbe coinvolgere anche i massacri compiuti dalle province del Califfato, ad esempio in molti Paesi africani. Ha ricevuto solo promesse.
Alla base del processo c’è l’inchiesta condotta da una equipe delle Nazioni unite. Sono stati individuati con precise testimonianze oltre quattrocento criminali dell’Isis responsabili di massacri e di riduzione in schiavitù di donne e bambini. Almeno 2800 sarebbero ancora nelle mani dei miliziani. —