Linkiesta, 1 dicembre 2021
I ricchi che si fingono come noi
Come si stabilisce il successo d’uno sceneggiato televisivo, d’un teleromanzo, o se volete – nostalgici del lessico novecentesco – d’un telefilm? Non il successo presso il pubblico o la critica: come stabiliamo se ha successo in casa nostra?
Dipende dalla velocità con cui ci precipitiamo a guardare una nuova puntata appena disponibile? Non io; anzi: più sono brutti più li guardo subito, smaniosa di levarmeli di torno ma vittima del completismo che m’impedisce di mollarli (più sono brutti più voglio vedere fin dove possono arrivare: li guardo come l’elettorato dell’Ulivo guardava Emilio Fede negli anni Novanta).
Dipende da quanto ne citiamo i personaggi, col delirio adolescenziale con cui si sovrappongono persone della nostra vita e creature di fantasia? Forse.
Con Succession, io ho stabilito che era il maggior successo degli ultimi anni a un certo punto della terza stagione (che finalmente è cominciata su Sky), quando il figliol prodigo va a pranzo con una giornalista. Sono seduti a un tavolo al centro del ristorante, un posto dove nessuna persona ricca e famosa si farebbe mai mettere a sedere: i ricchi e famosi mangiano in salette nel retro del locale, dove nessun mortale possa notarli e infastidirli durante la masticazione con richieste d’autografi, d’autoscatti, di prebende, di raccomandazioni, di «Bobo Vieri, ci facciamo un video per il compleanno di mia nonna?» (in romano: «France’, che me lo fai un video pe’ nonna che compie l’anni?»).
Se si fosse trattato d’un altro teleromanzo, non dico che l’avrei mollato (abbiamo già stabilito che non sono in grado di chiudere le relazioni insoddisfacenti), ma di certo avrei iniziato a disprezzarlo: ma guardali, vogliono raccontare i ricchi e gli mancano i fondamentali.
Con Succession mi sono chiesta quale fosse la ragione di questa scelta, e ho deciso che avevano ragione loro: la seconda stagione finisce con Kendall (il figliol prodigo) che dichiara guerra a Logan (il patriarca) nel corso d’una conferenza stampa, e quindi è fisiologico che, quando dà la propria versione dei fatti a un giornale, il figliol prodigo voglia che tutti lo vedano, che tutti sappiano, che tutti pensino che lui è il vincente che pranza con la stampa nei ristoranti fighi, mica il tapino che se ne sta nascosto nel suo attico a piangere perché paparino non gli vuole più bene.
È stato allora, quando ho deciso che, tra me e gli autori di Succession, i loro personaggi li avevano capiti meglio loro, che mi sono arresa all’evidenza: quello era lo sceneggiato più amato in casa mia. (Quest’anno pari merito con American Crime Story: Impeachment, ma quello abbiamo già stabilito che vince non per qualità intrinseche ma per effetto-madeleine).
La regista di una delle puntate di questa stagione di Succession, Lorene Scafaria, ha detto a Vulture una cosa interessante a proposito proprio di Kendall, che nella puntata da lei diretta compie gli anni, del modo ossessivo in cui prepara la playlist della serata, acciocché tutti capiscano cos’ha dentro, mentre gli altri questi dettagli per lui così preziosi mica li notano (gli altri badano a noi molto meno di quanto c’illudiamo facciano, come hanno detto tanti di quegli scrittori che questo concetto non si sa mai bene a chi attribuirlo).
Butta lì Scafaria: «C’è qualcosa d’un po’ triste nell’organizzarsi da soli una gran festa di compleanno, no?». Quindi anche i ricchi sono infelici come noi. Anche loro non hanno nessuno che gli organizzi feste a sorpresa e quindi devono pensarci da soli. Anche loro soffrono, mentre dicono all’autista di non rallentare per aiutarci mentre siamo sul bordo della strada con una gomma bucata.
Ma quando mai. Cioè, certo che Succession vuole dirci quanto sono infelici, e quanto fanno schifo, e quanto il peggio del peggio accada nelle loro vite e nelle loro interazioni con altri ricchi. Ma mai, mai, mai gli sceneggiatori di Succession sono così accomodanti con lo spirito del tempo e pigri e sciatti da dirci che i ricchi sono come noi.
Ci pensavo l’altro giorno, mentre la Ferragni e il marito s’instagrammavano su un triste volo di linea mentre andavano a Madrid alla prima del documentario sulle loro vite: abitiamo – nella realtà, fuori da Succession – un tempo in cui siamo così impegnati a fingerci uno-di-voi che se siamo intelligenti fingiamo d’avere idee banali per vendere più libri, se siamo abituati ai voli privati prendiamo quelli di linea per non farci dire che siamo élite, se siamo oppressori facciamo di tutto per sembrare oppressi.
È credibile che Prime, che ha investito nel reality sulla famiglia Ferragni cifre stroboscopiche, non paghi ai due un miserabile volo privato da Milano a Madrid? Figuriamoci. È invece credibile che siamo-come-voi, il massimo punteggio ottenibile ai punti fragola del commercio del sé, valga un’ora di scomodità, coi vicini di posto che ti chiedono il selfie e il video per il compleanno di nonna e l’autografo per mia cugina che è tanto tua fan, Chiara, ha comprato pure l’ombretto sbrilluccicante col tuo logo.
Ce li vedi, quelli di Succession, scendere tra la plebe solo per non farsi dire che sono élite, per farsi vedere, per farsi porgere bambini da baciare e infermi da benedire? Ma figuriamoci. Solo in caso di disperazione estrema quale quella di Kendall. Che, quando nell’intervista fa la figura del fesso e diventa il caso social del giorno, rimira i tweet e gongola d’essere «al centro della conversazione». Neanche gli avessero detto che parla con una dizione strascinata che dieci chilometri più in là non capisce nessuno.