Il Sole 24 Ore, 30 novembre 2021
Banche, nei conti del ceto medio 1,7 trilioni
Rappresentano il cuore del risparmio italiano, anche se almeno finora non sono stati al centro dei pensieri di chi deve gestire il loro denaro, ma la loro ricchezza potrebbe funzionare da volano per l’intera economia italiana, se veicolata nella direzione giusta. Quella nei confronti della clientela affluent, con patrimoni compresi fra 50-100mila euro e 500mila-1 milione di euro in base alle differenti classificazioni degli operatori, rischia di essere proprio una sorta di ultima chiamata: per il Paese, per il sistema finanziario e anche per loro stessi.
Nei loro portafogli resta custodita oltre la metà del risparmio nazionale, 1.700 su 3.300 miliardi, una fetta cioè superiore a quella riconducibile alla categoria dei risparmiatori di massa e del segmento private della clientela più facoltosa messi insieme e in continua crescita. A ricordarlo è uno studio presentato da Bain & Company in occasione del Wealth Management Forum organizzato da Abi, nel quale si sottolinea anche come proprio in questa particolare fascia il risparmio possa crescere in misura rilevante e più spedita che altrove: con un tasso superiore al 2% medio annuo registrato finora e in accelerazione che possa a breve portare la sua ricchezza complessiva oltre la soglia dei 2mila miliardi.
«Quasi il 40% di questi risparmi, oltre 650 miliardi, resta parcheggiato sotto forma di liquidità improduttiva, rappresenta un costo per le banche e non garantisce rendimento ai clienti», avverte Daniele Funaro, Partner di Bain & Company e curatore della ricerca, aggiungendo che «se soltanto un quarto di questo denaro fosse investito nell’economia reale si potrebbero iniettare nel sistema risorse per oltre 150 miliardi da affiancare al Pnrr». Un ragionamento, questo, che mette a fuoco la sfida cruciale per l’industria: accompagnare i clienti affluent nel complesso passaggio da un ruolo di risparmiatore a uno di investitore consapevole, che possa al tempo stesso fornire anche supporto al Paese.
Il problema è che storicamente questa fascia intermedia della clientela è stata piuttosto trascurata dalla gran parte degli operatori. Soprattutto quando si parla di investimenti, vero e proprio momento della verità nel rapporto banca-cliente, ben di più dei finanziamenti o di altri servizi offerti. «Il cliente affluent non è per niente soddisfatto dai servizi di consulenza offerti dalle istituzioni finanziarie in questo ambito, preferisce un’esperienza ibrida multi-canale ma costruita intorno alla figura del banker e apprezzerebbe in modo particolare la proattività da parte delle banche nel gestire il rapporto» evidenzia Funaro, ricordando come un cliente contattato con maggior frequenza e qualità sia in grado di generare tra il 20 e il 30% di ricavi in più.
L’avvertimento vale soprattutto per le banche «tradizionali», cioè i soggetti che in fondo coprono maggiormente il segmento in questione con una quota del 65%, ma che non sono certo in molti casi i più innovativi, né i più dinamici. Questo ruolo è infatti riservato ai player dotati di una rete di consulenti finanziari, che servono il 15% degli affluent (il restante 18% fa capo a Poste Italiane) assistendoli sia nei negozi finanziari, sia fuori sede e che continuano a guadagnare posizioni sul mercato. «Ci aspettiamo un ulteriore aumento della loro quota, che potrebbe raggiungere il 22% nei prossimi 5 anni e il 27% fra 10 anni – sottolinea Funaro – grazie a un modello di servizio più efficace, che fa leva su una forte relazione con il cliente, un efficace sistema incentivante, forti competenze e piattaforme operative e digitali evolute».
Alle banche tradizionali non resta quindi che giocare in difesa e attrezzarsi per frenare l’emorragia, agendo secondo Bain su più leve in modo da evolvere la qualità dell’advisory e servizi offerti: segmentare i clienti anche in base ai loro bisogni dettati dalla fase del ciclo di vita che attraversano; differenziare anche per questo l’offerta, proponendo una consulenza personalizzata e integrata; ridisegnare il modello di servizio prevedendo contatti frequenti e puntare su soluzioni fortemente digitalizzate.
La posta in gioco è del resto molto alta. «Mettendo bene a fuoco il segmento affluent le banche potrebbero conseguire incrementi strutturali nella redditività superiori al 20%», osserva Funaro, invitando a considerare anche la rivalutazione che gli operatori conseguirebbero sul mercato: «I multipli riconosciuti dagli investitori per il business del wealth management - spiega – sono ben superiori rispetto a quelli del banking tradizionale e per ogni 100 milioni di maggiori profitti provenienti da questa area e comunicati efficacemente al mercato si possono generare oltre 500 milioni di extra valorizzazione del titolo grazie al re-rating degli investitori». Senza contare che i vantaggi di una gestione più efficiente si trasferirebbero col tempo da una parte alla ricchezza degli stessi clienti, grazie ai migliori rendimenti dei portafogli, dall’altra all’intero sistema Paese, che si avvantaggerebbe dell’arrivo di nuove risorse a supporto dell’economia reale. Insomma, un gioco non a somma zero, ma potenzialmente vincente per tutti.