Il Sole 24 Ore, 30 novembre 2021
Come stanno i Bric a 20 anni dalla nascita
Sono passati esattamente 20 anni da quando Goldman Sachs pubblicò quello che è probabilmente il documento di lavoro di maggiore impatto nella storia della ricerca economica di una banca d’affari. Neanche il socio più tronfio dell’augusta istituzione newyorkese, che il 30 novembre 2001 aveva già festeggiato i suoi 132 anni di successi, poteva pensare che l’acronimo Bric sarebbe diventato tanto popolare. Probabilmente neanche Jim O’Neill, allora alla testa della Global economic research, che identificò in Brasile, Russia, India e Cina le economie destinate a crescere più rapidamente nel primo decennio del XXI secolo e ne quantificò l’impatto sull’economia globale. Come immaginare che quello che era innanzitutto uno strumento per promuovere una nuova categoria di investimenti di Goldman Sachs sarebbe diventato sinonimo di mercati emergenti? E che i Paesi stessi avrebbero tanto apprezzato il nome da utilizzarlo al momento da costituirsi come un gruppo politico alternativo al G7 dei Paesi industrializzati?
L’intuizione alla base di Building Better Global Economic BRICs era relativamente semplice. O’Neill constatava che a fine 2000 il Pil dei Bric (in dollari espressi a parità di potere d’acquisto, Ppa) era ormai quasi un quarto del Pil mondiale (il 23,3% per la precisione), una partecipazione quasi tre volte superiore che sulla base del Pil a dollari correnti (8%). C’era spazio anche per l’Italia nello studio, che menzionava come in dollari correnti il Pil cinese avesse già superato il nostro. Da ciò una serie di previsioni – che nel 2011 i Bric avrebbero pesato per il 4,2% (in dollari correnti) e 27% (una volta convertito ai tassi Ppa) del Pil mondiale – e raccomandazioni di global governance – ridurre da tre (Francia, Germania e Italia) a uno (l’Eurozona) i rappresentanti europei in seno al G7, invitando la Cina, magari il Brasile e la Russia, e se possibile anche l’India.
Cosa è successo da allora (a parte che l’acronimo è diventato Brics, una volta incorporato il Sudafrica, questa volta prima sul piano politico, come del resto fu per il G7 con la Russia fino alla guerra di Georgia)? Certamente il peso economico dei Bric aumentò nel decennio 2001-11, nei fatti molto di più di quanto previsto per il Pil a valori correnti (nel 2011 era 19,1%) ed esattamente in linea per la misura Ppa. La Cina fece sicuramente la parte del leone, ma anche i Brasile, India e Russia si comportarono egregiamente. Nel periodo successivo (dal 2012 al 2020), però, la dinamica si è ingrippata (l’aumento medio per anno è stato la metà per la misura corrente, e perfino inferiore per quella in Ppa), anche se nel complesso i Bric pesano ormai per un quarto e un terzo, rispettivamente, dell’economia globale. Ma se si esclude la Cina, la cui partecipazione al Pil mondiale è cresciuta ogni anno in media dello stesso ammontare nei due periodi, gli altri Bric (i Bri) hanno perso parecchio terreno. Due dati lo rivelano crudelmente: il peso dei Bri è diminuito dal 2011 (di poco in Ppa, di molto in dollari correnti) e per Brasile e Russia è attualmente inferiore che all’indomani della crisi finanziaria globale. Addirittura, il Brasile è retrocesso rispetto al 1996, quando pesava per 3,44% (in Ppa), calato al 2,38% odierno.
Va biasimato O’Neill, per avere ecceduto in ottimismo sulle capacità delle economie periferiche di realizzare il catch-up? Oppure aveva visto giusto, ma qualcosa è andato per il verso sbagliato nei Bri? In realtà la grande delusione sono i brasiliani, che nel 2001 avevano di gran lunga il reddito medio procapite più alto tra i Bric (quasi tre volte quello medio del gruppo, anche se già in caduta libera rispetto al 1996) e due decenni dopo si ritrovano al terzo posto, poco più ricchi della media dei quattro popoli e solo due volte più ricchi degli indiani (nel 1996 erano sei volte più ricchi). Ma anche se – a causa di volatilità macroeconomica, scarsa diversificazione, diseguaglianza e corruzione – i brasiliani hanno fatto registrare una contro-performance, il reddito medio degli abitanti dei 4 Paesi è passato da meno di un quinto rispetto a quello dei cittadini del G7 a più del 43% nel 2020.
Tanti altri indicatori convalidano il giudizio complessivamente positivo sulle capacità predittive del team di Goldman Sachs. In termini di competitività, i Bric rappresentavano neanche un decimo delle domande globali di brevetti e ormai sono arrivati alla metà – con la Cina sugli scudi, come confermano le analisi americane in settori specifici come l’intelligenza artificiale o i super-computer. Per quanto riguarda lo sviluppo sociale, per un abitanti dei Bric la speranza di vita alla nascita è passata da 68 a 74 anni in meno di due decenni, un balzo in avanti rapidissimo (negli Stati Uniti è aumentata di due anni, da 77 a 79) ed è ascrivibile a progressi realizzati in ogni Paese. E se 211 milioni di persone costrette a defecare all’aperto nel XXI secolo sono uno scandalo (e un enorme pericolo sanitario) esse pesano “solo” per 7% della popolazione dei Bric rispetto a 30% nel 2001.
L’altro punto importante sollevato da O’Neill era che i meccanismi istituzionali di coordinamento delle politiche economiche globali dovevano cambiare. Ed effettivamente molto è successo da allora, anche se non esattamente nei termini auspicati da Goldman Sachs. Le proposte di alcuni membri del G7, la Germania in particolare, di allargare ai Bric si sono scontrati con la resistenza di altri, fino al vertice di Pittsburgh del 2009 quando il G20 è diventato «the premier forum for international economic cooperation». Nel sistema internazionale le voci si moltiplicano e i Bric hanno iniziato a riunirsi nel 2009 e due anni dopo hanno accolto il Sudafrica. Ma i vertici hanno prodotto soprattutto dichiarazioni verbose che non hanno lasciato traccia, forse anche perché le discussioni tra i leader non hanno mai avuto il carattere di sincera informalità che caratterizza tuttora il G7.
Al G20, l’Eurozona continua a essere rappresentata da tre distinti governi nazionali, cui va aggiunta la Commissione europea. Una molteplicità di rappresentanti del Vecchio continente che può dispiacere all’economista britannico (che dopo aver fatto un carrierone in Goldman Sachs, in parte grazie al suo magico acronimo, è stato fino a pochi mesi fa presidente di Chatham House, il prestigioso think tank londinese). Ma che per i grandi della Terra può anche essere una benedizione, dato che per esprimere come si deve la speranza di vedere esauditi i propri desideri hanno dovuto attendere il G20 romano e il getto delle monetine nella fontana di Trevi.