Linkiesta, 30 novembre 2021
Il caso Virgil Abloh, che non ha parlato della sua malattia
Quando è arrivata la notizia della morte di Virgil Abloh, stavo illustrando a interlocutori troppo educati per zittirmi la teoria che ho sviluppato senza aver passato neanche un giorno nelle aule di medicina ma in compenso moltissimi a scorrere Instagram: non è possibile che le sinapsi di gente abituata a filmarsi da mane a sera, a vivere in diretta, a non potersi permettere una giornata non fotogenica, non è possibile che quelle sinapsi lì non siano mutate rispetto a quelle di noialtri che le saponette andiamo a pagarle alla cassa del supermercato invece di taggarne il produttore che così ce le omaggia.
Morire a sorpresa fa impressione sempre, è un fatto cui seguono telefonate «ma tu lo sapevi?» anche tra gente che il defunto lo conosceva solo di nome (e che però si sente comunque esclusa: è morto senza dirlo a nessuno nessuno, o sono solo io la figlia della schifosa che non è stata informata?).
L’impressione è maggiorata quando il defunto era famoso: i famosi – noi non famosi ne siamo convinti da sempre, forse persino da prima di Taylor&Burton – ci devono qualcosa. Devono pagare il fatto d’essere più ricchi, più belli, di vivere vite più comode delle nostre, e devono pagarlo con la scomodità massima: la rinuncia a ogni privatezza. Come si permettono d’ammalarsi di nascosto? Il famoso può morire a sorpresa solo se è un incidente: John Kennedy jr. sì, Nora Ephron no.
Queste erano le regole d’ingaggio fino a un decennio fa. Avevamo superato i dieci anni di Grande Fratello e ancora vivere in diretta ci sembrava una perversione per pochi. C’era un pieno di persone normali convinte di non essere come quegli sciamannati della televisione, di non voler vivere su un set con le telecamere anche in bagno.
Poi è arrivato Instagram, e le telecamere abbiamo iniziato a portarcele in bagno senza neanche che fossero imposte dalla produzione televisiva. Per esibizionismo in purezza, mica per contratto.
L’anno prossimo sono dieci anni che Nora Ephron è morta di nascosto. Non sapevano che fosse malata neanche gli amici abbastanza cari da essere stati da lei precettati a tenere le orazioni funebri (come si riconosce una donna di carattere: non ti dice che sta morendo da viva, e t’impone di lodarla da morta).
Forse la misura di quanto sei benvoluto è la disponibilità degli altri a tenere i tuoi segreti. Se sei famoso e neanche un medico, un infermiere, il parente d’un altro ricoverato, nessuno ti vende a un rotocalco, forse muori lo stesso, ma almeno riesci a non farti in pubblico l’anticamera della morte: già morire è una scocciatura, almeno la possibilità di farlo con discrezione dovrebbe essere garantita.
A meno che, appunto, tu non faccia parte di quella mutazione per cui avviene davvero solo ciò che avviene in pubblico. La sorella di Chiara Ferragni ha di recente raccontato su Instagram d’avere un tumore della pelle. Poteva non raccontarlo? Forse no: se vivi fotografandoti, e ti asportano un bozzo dalla fronte, i punti di sutura devi in qualche modo spiegarli al tuo pubblico. Certo, potresti dirgli che ti sei fatta un bernoccolo inciampando. Ci crederebbe: il pubblico crede a tutto, specie quello che si sente abbastanza furbo da non credere a niente.
Se vivi in pubblico sei tenuta a morire in pubblico? Se sei sana in pubblico sei tenuta ad ammalarti in pubblico? Se il tuo matrimonio è di pubblico dominio, quando finisce è tuo dovere informarne il pubblico? Come funzionano le nuove regole d’ingaggio?
Quando già sapeva che sarebbe morta di lì a non moltissimo, Nora Ephron aveva pubblicato una raccolta di saggi intitolata “I remember nothing”. Uno dei capitoli era la lista delle cose che le sarebbero mancate. Avevamo tutti voluto credere che una settantenne che fa la lista delle cose che le mancheranno da morta fosse semplicemente una che fa i conti con l’età, mica una che è stata diagnosticata incurabile. Reginetta delle ottuse, io per quel libro la intervistai pure: le chiesi di Sarah Palin, mica se stesse per morire (non me l’avrebbe detto, ovviamente; mi avrebbe riso in faccia, ovviamente).
Forse la ragione per cui ci fa tanta impressione che qualcuno tenga nascoste la malattia e la morte, anche se siamo gente di prima della mutazione e non ci piace l’esibizionismo, è che abbiamo questa bislacca idea che si possa essere felici da soli, ma che l’infelicità vada condivisa. Ogni volta che sento sospirare, di qualcuno che magari ha avuto un infarto ed è stato ritrovato il giorno dopo, «poverino, è morto da solo», mi chiedo che consolazione sia mai avere qualcuno intorno, mentre muori.
Certo, se hai un infarto magari quel qualcuno è utile a rianimarti, ma se muori di qualcosa da cui la compagnia non può salvarti, com’è accaduto a Ephron e ad Abloh, a che ti serve convocare gente al tuo capezzale? A morire pensando «brutti stronzi, voi invece siete ancora vivi».