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 2021  novembre 29 Lunedì calendario

Da "Una profezia per l’Italia. Ritorno al Sud" di Ernesto Galli della Loggia e Aldo Schiavone (Mondadori)

Il progetto di questo libro è nato in un altro tempo e per un’altra storia: quando l’ipotesi che in pochi mesi il mondo si potesse trovare sull’orlo di una crisi drammatica per effetto di un virus prima sconosciuto apparteneva solo alla fantascienza. Concepimmo allora l’idea di un viaggio nel Mezzogiorno. E cioè nel luogo critico per eccellenza dell’intera vicenda italiana dall’unità in poi, là dove si sommano nella maniera più aspra tutti i nostri problemi. Volevamo in particolare dar conto di un fatto che attirava sempre di più la nostra attenzione: il Sud si stava virtualmente staccando dal resto della Penisola, stava diventando un altro Paese. Questo ci era parso un dato non solo incontestabile, ma ormai accettato da tutti in un silenzio che trovavamo ogni giorno più insopportabile. Nel Meridione d’Italia l’applicazione delle leggi, il funzionamento dei servizi, della scuola, della sanità, dell’amministrazione, del fisco, la qualità della convivenza civile e della vita pubblica erano diversi, sempre più diversi — e in peggio, si capisce — rispetto a quelli del Centro e del Nord. E l’aspetto stesso dello Stato appariva mutato in quei contesti, come se avesse cambiato volto e significato.

(...) Almeno dagli inizi del nuovo secolo — con l’accentuarsi dei processi di deindustrializzazione in seguito alla rivoluzione tecnologica, e ancor più dopo la crisi finanziaria del 2008 — l’Italia era già un Paese in declino, che non era stato in grado di intercettare nel verso giusto il vento della trasformazione. Questo — a noi come a molti altri del resto — era ben chiaro. Ci pareva però che il Paese avesse innanzi a sé ancora del tempo. E, soprattutto, che fossimo ancora lontani dalle condizioni che avrebbero potuto rendere plausibile un brusco salto di qualità, e bisognasse procedere perciò sempre per linee interne rispetto al passato; e che qualunque discorso sul Mezzogiorno dovesse rientrare in questa prospettiva senza strappi.

Ma l’epidemia ha aperto una pagina completamente nuova della nostra storia. Ha creato una discontinuità imprevedibile, che coinvolge l’intero Paese. Tanto più in seguito alla disponibilità dei fondi europei. E proprio perciò oggi ci permette, ci obbliga quasi a iniziare un’altra fase della nostra storia, godendo di una insperata libertà d’azione.

E allora il problema non ci è sembrato più quello costituito solo dal Mezzogiorno, ma si è presentato direttamente innanzi a noi come la questione dell’Italia intera: del suo futuro, della sua possibilità di continuare a occupare un posto nel gruppo di testa delle nazioni del mondo, della sua capacità di mantenere un ruolo centrale nella costruzione europea. In questa luce, il destino italiano ci è, sì, continuato a sembrare più che mai legato a quello del Sud, ma in un certo senso in modo opposto a come in precedenza eravamo indotti a credere. Oggi infatti non si tratta più di trovare le vie per integrare il Meridione nel resto della Penisola, sia pure in un momento di declino. Si tratta di rifare per intero il Paese, cogliendo un’occasione irripetibile.

È l’Italia nel suo insieme, il suo modo di essere Paese e Stato, che vanno ripensati. Servono una forma nuova, propositi mai messi in campo, nuove consapevolezze delle nostre qualità e possibilità. Una rinnovata attitudine anche nei confronti dell’Europa.

Per dare vita a questa nuova storia c’è più che mai bisogno del Mezzogiorno. L’idea che un’Italia che conta, che pesa economicamente e politicamente, in grado di far sentire la propria voce fuori dei suoi confini, possa essere un’Italia che si ferma a Roma e a Pescara, e abbandoni il Sud al suo destino, oggi più che mai non regge. Occorre invece tutt’altro: qualcosa che assomigli a una vera e propria riscrittura del nostro patto di unità nazionale, assumendo come punto irrinunciabile per la sua sopravvivenza la piena integrazione del Paese.

(...) In questo ordine di pensieri, sono le stesse potenzialità geopolitiche della forma Italiae distesa nel mare che ci riportano al Sud, ponendoci davanti a una conclusione indiscutibile, come cercheremo di provare in questo libro: senza il Meridione, senza la sua parte insulare e peninsulare, e cioè senza il mare, l’Italia davvero non conterebbe pressoché nulla.

In realtà, pure a prescindere dagli innumerevoli e strettissimi legami che da almeno un paio di millenni hanno continuato a tenere insieme le sue parti, anche senza volgere lo sguardo alla lingua e alla tradizione religiosa, l’Italia esiste. Ma bisogna convincersene: esiste e ha un peso, una voce udibile, un’identità, solo se è una, dalle Alpi alla Sicilia.

Soltanto da una tale consapevolezza può nascere il nuovo patto unitario a cui ci chiamano i fatti. In nome del quale ricostituire un Paese capace di avere una nuova vita, di dire la sua, di essere qualcosa, di reggere la competizione con gli altri attori sulla scena. Farlo significa anzitutto ricostruire lo Stato: stavolta, sì, avendo cura di adottare regole e istituzioni nuove. Per le quali sono già agli atti, a indicare la strada, i risultati di almeno quattro o cinque autorevoli commissioni parlamentari.

Per risorgere, l’Italia non ha bisogno di mezze misure all’insegna dei soliti compromessi al ribasso. Ha bisogno di radicalità, di scelte coraggiose, di un nuovo spirito animatore e lungimirante. E soprattutto di donne e uomini nuovi, consapevoli del proprio compito (...).

Ma non facciamoci illusioni. Tutto questo potrà un giorno cominciare a diventare realtà solo se i meridionali lo vorranno. Solo se essi si convinceranno che cambiare le cose alla fine dipende da loro, non da altri. Che, soprattutto, dipende da loro usare il diritto di voto non solo per chiedere al Paese le cose giuste, ma in modo specialissimo per scegliere da chi essere governati. Se una cosa nel nostro viaggio ci è parsa evidente, infatti, è stata la pessima qualità morale e culturale, e di conseguenza amministrativa (le cose sono di sicuro collegate), che nel generale naufragio di tutti i partiti caratterizza, salvo poche eccezioni, il personale politico meridionale. Le condizioni in cui versa il Mezzogiorno dipendono in misura assai importante proprio dalla inadeguatezza di questo ceto. E dunque, se gli attuali sindaci e presidenti di Regione resteranno al proprio posto, se resteranno al proprio posto i parlamentari che oggi lo rappresentano a Roma, il Sud non riuscirà mai a cambiare, se non in peggio (...).

Il bilancio che si ricava dall’esperienza degli ordinamenti regionali meridionali è sotto gli occhi di tutti: ed è un bilancio disastroso. Un esito ben lontano dalle attese di una volta, quando si vedeva nel compimento regionale della struttura delle autonomie un passo decisivo per la costruzione del tessuto democratico del Sud. (...) Questa è tuttavia solo la metà del problema; l’altra metà è che per mandarli a casa è necessario che qualcuno prenda il loro posto.

È un punto cruciale. In tutte le regioni del Sud ci s’imbatte troppo spesso in un atteggiamento di rifiuto verso ogni impegno pubblico proprio da parte di quella società civile colta e capace che, benché vada via via restringendosi quantitativamente, tuttavia avrebbe potuto e ancora potrebbe opporre almeno un ostacolo all’indisturbata ascesa al potere di coloro che da anni lo occupano e se ne servono. Potrebbe ancora opporre una resistenza all’ascesa della genia degli uomini di partito di partiti inesistenti, dei traffichini senza mestiere, dei manutengoli degli affari più sporchi, degli specialisti nel cambiare casacca a ogni tornata elettorale. Questa sorta di fuga dalla politica da parte dei migliori avviene più o meno, lo sappiamo bene, anche nel resto del Paese, ma nel Sud essa è più estesa che altrove, e ha effetti di sicuro più negativi. Oggi persino quello che un tempo era il notabilato meno colto e capace si tiene in genere lontano dalla sfera pubblica: per la cura dei propri interessi preferisce servirsi di questo o quel governante, che del resto non vede l’ora di trovare qualcuno del quale mettersi agli ordini.

Uno degli aspetti meno conosciuti ma più significativi del dramma del Mezzogiorno sta precisamente in questo: nel suo depauperamento di energie civili, nel sentimento di sfiducia e di abbandono che vivono i migliori tra i suoi cittadini. Nel loro disimpegno. E non si tratta solo di una fuga dalla politica istituzionale, di una diserzione dalle assemblee e dagli organi di governo. Ciò che è più grave è che gli uomini e le donne del Sud colto e capace hanno smesso anche di esercitare una funzione critica verso la propria società, verso i suoi vizi antichi e nuovi, verso il suo grigissimo presente. E hanno smesso al tempo stesso di pensare a un qualche suo possibile futuro. In un certo modo tristemente paradossale è questo l’esito della «questione meridionale» (...).

È necessario che un’aria nuova cominci a spirare. Non sappiamo se sia vero, come qualcuno ha scritto, che la crescita dell’Italia si decide nel Mezzogiorno. Quel che sappiamo è che, se l’Italia vuole davvero voltare pagina, se vuole ripensarsi e agire come un Paese consapevole delle proprie effettive potenzialità geopolitiche, e quindi dei propri interessi, deve cominciare a guardare a sud; cominciare a considerarsi non più solo un Centro-Nord, come ha fatto finora, ma anche un Sud: come il Paese centrale dell’area euro-mediterranea. Che con il quadrilatero Trieste-Savona-Pantelleria-Taranto occupa lo spazio strategicamente più importante di quest’area. Se mai si costituirà una Marina militare europea, dov’altro potrà essere se non qui, infatti, la sua principale base operativa? Sappiamo anche che solo cominciando a guardare a sud, solo recuperando la dimensione marittima della Penisola, potrà essere posto finalmente termine alla «questione meridionale», alla drammatica separatezza del Mezzogiorno che ci trasciniamo da tanto tempo.