il Fatto Quotidiano, 29 novembre 2021
I neospalloni
Se l’evasore non va al paradiso fiscale, è il paradiso fiscale che va a cercare l’evasore. O meglio, non lo fa direttamente, in mezzo c’è un altro passaggio: una banca. Nel gergo finanziario, si chiamano “professional clients”: istituti di credito o società fiduciarie europee che si è scoperto – quando si è alzato il velo su importanti leaks, dalla lista Falciani ai Panama Papers – controllavano decine, se non centinaia di società schermate.
Due inchieste, condotte fra Torino e Milano, con esiti alterni, hanno scoperchiato una sorta di sistema, andando a contestare il reato di riciclaggio non più solo al singolo evasore, ma direttamente alla banca.
Lo spallonaggio 3.0 dei relationship manager
Il meccanismo, venuto fuori da testimonianze e da più inchieste, riscrive i connotati dello spallonaggio 3.0. Non erano gli evasori italiani a cercare modi per portare i soldi all’estero, ma intermediari delle banche, “relationship manager”, a procacciare clienti, come un qualsiasi promotore finanziario. Con la differenza che all’utente proponevano il pacchetto completo per trovare un rifugio sicuro a denaro di provenienza sospetta, quando non illecita: creazione di trust, conti cifrati, schemi di società offshore preesistenti, teste di legno pronte a mettere il proprio nome per proteggere i veri proprietari, i “beneficial owner”. Addirittura, in alcuni casi erano le stesse banche a organizzare l’intera operazione: prelevare il contante e trasferire il cash da e per l’Italia, ovviamente trattenendo una percentuale del 2%.
Un primo fascicolo nasce a Torino. Il nucleo di polizia tributaria della Guardia di Finanza comincia a lavorare su due elenchi: uno più datato, la lista di titolari di conti correnti in Svizzera stilata dall’ex funzionario di banca Hervé Falciani, e uno più recente, quello dei “Panama Papers”.
I finanzieri, coordinati dal pool reati economici guidato dal procuratore aggiunto Marco Gianoglio, cominciano a convocare i nomi contenuti nelle liste: imprenditori con provviste nere, nobili, bancarottieri, talvolta figli che hanno ricevuto eredità di cui sanno poco o niente. C’è un po’ di tutto.
A colpire gli inquirenti è però un’affermazione ricorrente: nessuno o quasi sembra aver avuto rapporti con lo studio panamense “Mossack e Fonseca”, gli specialisti di società offshore, la cui banca dati (i Panama Papers, appunto) è finita sui giornali di mezzo mondo e persino al centro di un film hollywodiano con un super-cast.. Alcuni di loro raccontano che sono stati i promotori a fare praticamente tutto, c’è chi giura persino di non aver avuto contezza di dove stavano esattamente i capitali.
Gli accertamenti si muovono su vari fronti. Da un primo censimento i finanzieri trovano anche alcune filiali (branch) estere collegate a banche italiane, “professional clients” con decine di posizioni aperte presso lo studio Mossack e Fonseca: la Societé Europeenne de Banque Sa (Intesa) ne ha 160; Global Trust Advisors Sa Luxembourg 130; Ubi banca international 95; Unicredit Luxembourg 63; Compagnie Monegasche de Banque (Mediobanca) 40. Va sottolineato: questo non è necessariamente sintomo di illegalità. Occorre infatti provare da dove vengano i soldi e come sono stati reimpiegati.
Il caso Hsbc molti indizi, ma indagine archiviata
Questo cerchio, però, arriva (quasi) a chiudersi solo in un caso: la Procura trova molti clienti legati a intermediari che lavorano per un’altra banca, il colosso britannico Hsbc. Attraverso documenti trovati nei leaks, i finanzieri ricostruiscono una rete di una decina di promotori, che lavora in una trentina di città italiane dove cura clienti particolari (incontri vengono documentati a Milano, Roma, Firenze, Genova, Varese, Modena, Trenti, Bassano del Grappa, Rovigo). Ben presto però l’inchiesta diventa un po’ una caccia ai fantasmi. Quasi nessuno dei professionisti è residente in Italia. Ci sono problemi di competenza territoriale. E da provare anche un collegamento che consenta eventualmente di traslare le contestazioni sulla banca.
I magistrati iscrivono sul registro degli indagati i nomi di due intermediari finanziari, A. O. e G. H., che gravitano sulla filiale della Hsbc di Lugano. A chiamarli in causa sono alcuni clienti, ma le loro contestazioni non bastano, tecnicamente sono “chiamate in correità” (i testimoni di fatto si autoaccusano e potrebbero avere interesse a scaricare la propria responsabilità) e necessitano per questo di altri riscontri. Così l’indagine viene archiviata. Mentre un’altra parte importante del fascicolo, su un terzo consulente che gravita su Roma, viene trasferita nella capitale dove diventa la base per un’importante operazione anti-riciclaggio.
Il lavoro di Torino viene però riattualizzato anche dalla Procura di Milano, che nel dicembre 2020 acquisisce gli atti dell’inchiesta piemontese. Gli accertamenti vengono riversati in un nuovo fascicolo, coordinato dai pm Monia Di Marco ed Elio Ramondini, che ipotizza un gigantesco giro di riciclaggio a carico di alcune banche svizzere. I pm milanesi hanno ipotizzato lo stesso schema partendo da un altro punto di partenza, le voluntary disclosure.
Il filone svizzero: il “manuale dell’evasore”
Tutto nasce dalla voluntary disclosure, lo strumento fiscale introdotto nel 2014 dal governo Renzi, che mirava a far emergere e regolarizzare – a fronte di una sanzione (variabile dal 3% al 15%) – capitali detenuti segretamente all’estero da cittadini italiani e che in un paio d’anni consentì di “ripulire” decine di miliardi pagando all’erario quasi nulla (l’8% in media).
Nella domanda che i clienti dovevano inviare all’Agenzia delle Entrate per chiedere di aderire alla “divulgazione volontaria” non era richiesto di spiegare come era stato accumulato il tesoretto all’estero, cioè di quale attività fosse frutto. Era però necessario, se si voleva beneficiare del condono, spiegare in che modo era stato trasferito fisicamente il denaro oltreconfine. Ed è così che è venuta alla luce la vera storia sul rapporto tra gli evasori fiscali nostrani e le banche del Canton Ticino, da sempre porto sicuro per certi capitali tricolori. Molti dei 130mila italiani che hanno aderito alla voluntary disclosure (la prima versione, le cui domande dovevano essere presentate entro novembre del 2015) hanno infatti spiegato candidamente come ha funzionato per anni il sistema: non era l’evasore fiscale italiano a prendere il contante, caricarlo in auto e portarlo in banca a Lugano, ma esattamente al contrario.
C’è un precedente, un’indagine apripista conclusa nel 2016, in cui la Procura di Milano aveva addirittura trovato una sorta di “manuale dell’evasore”. L’inchiesta, aperta nei confronti di Credit Suisse per frode fiscale, ostacolo all’autorità di vigilanza e riciclaggio, si è conclusa con un patteggiamento da 110 milioni di euro.
I magistrati avevano scoperto che l’istituto di credito forniva ai propri funzionari incaricati di fare la spola tra Italia e Svizzera istruzioni precise per evitare di mettere nei guai la banca. Non usare Pc o cellulari aziendali, non dormire per più di tre giorni nello stesso hotel, non portare con sé alcun documento riferibile alla banca: queste erano alcune delle mosse necessarie per evitare che, in caso di controlli delle autorità italiane, Credit Suisse potesse risultare responsabile.