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 2021  novembre 29 Lunedì calendario

Morire di fame a Kabul

I volti dei neonati che muoiono di fame sembrano quelli dei vecchi. Pelle rugosa, occhi semichiusi, pochi capelli sul cranio ormai ben visibile. Una volta le loro foto venivano dalle carestie africane, erano l’immagine simbolo della disperazione nel Continente Nero. Le più recenti però sono quelle dei bambini afghani, piccole vittime innocenti del collasso del loro Paese dopo il ritiro della coalizione a guida americana lo scorso agosto e il ritorno del regime talebano. Guardiamo quelle che ci giungono dalla clinica di Herat, dove opera l’organizzazione umanitaria Medici Senza Frontiere.
C’è il piccolo Jawad, nato un mese e mezzo fa e ricoverato già da nove giorni. Pesa solo un chilo e mezzo, talmente debole che polmonite e setticemia lo stanno devastando. Nel letto vicino si trova Farzana, 8 mesi, pesa poco più di tre chili, la mamma è troppo malnutrita per poterla allattare. Il padre faceva il macellaio, ma a causa della crisi economica la gente non compra più carne, così mancano i soldi per acquistare il latte in polvere per la figlia. Poco lontano ecco Imran, tre anni, un’altra vittima della mancanza di cibo. È affetto da gravi disfunzioni neurologiche, gli mancano le energie per camminare. «La fame aggrava ogni patologia. Ci sono al momento 75 piccoli ricoverati le cui malattie dipendono sostanzialmente da insufficienza di nutrimento. Le mamme non hanno latte e i bambini diventano troppo deboli per poterlo succhiare. Ne muore almeno uno al giorno», spiegano i medici.
La base italiana
Avviene ad Herat, dove sino alla fine dello scorso giugno era acquartierato il contingente militare italiano. «La situazione è disperata e peggiora di giorno in giorno», ci segnalano i collaboratori locali. In effetti, però, l’intero Afghanistan è precipitato in una crisi economica, sanitaria e umanitaria gravissima. Mancano contanti, le banche sono chiuse, non vengono quasi più pagati gli stipendi da agosto, chi può scappa all’estero (in genere i professionisti, tra cui medici, ingegneri, professori), la popolazione non ha soldi per comprare da mangiare e combustibile per riscaldarsi, l’energia elettrica arriva a singhiozzo. In poche parole: il collasso. A farne le spese, come quasi sempre nelle situazioni più gravi, sono i bambini, i più piccoli. Vittime impotenti, che non hanno scelto nulla, non sanno cosa siano i talebani, gli hazara, i pashtun, gli uzbeki, i tagiki o i soldati stranieri, ma restano semplicemente alla mercé del fato. Un recente rapporto-appello delle Nazioni Unite denuncia in toni allarmati che lo scenario afghano sta diventando «uno dei peggiori al mondo». Su una popolazione che probabilmente tocca i 35 milioni (mancano censimenti precisi), almeno 22,8 milioni sono «a rischio malnutrizione». A detta del World Food Program: «Circa 3,2 milioni di bambini sotto i 5 anni d’età soffrono già di malnutrizione acuta e un milione potrebbe presto perdere la vita». Ai primi di ottobre i mercati popolari di Kabul erano già stracolmi di mobili e casalinghi che la gente svendeva pur di raccogliere i soldi per comprare cibo. Ora però l’organizzazione umanitaria Save the Children denuncia la crescita del «mercato dei bambini». Sono registrati casi di minori venduti per 500 dollari. In passato la tratta degli innocenti andava ad arricchire i lugubri guadagni dei trafficanti di organi.
Le spose bambine
Particolarmente richieste sono le bambine, date in spose ancora prima della pubertà. La Reuters segnala la vicenda di una famiglia che ha venduto le due figlie di meno di 10 anni per 3.000 dollari. Un altro motivo di allarme sono i parti in casa. Specie nelle zone rurali, scarseggia il carburante anche per portare le partorienti alle cliniche, dove ormai mancano medicinali e personale. Una situazione destinata a fare salire i decessi al momento del parto, sia delle donne che dei figli. Il governo talebano prende le distanze, chiede la fine dell’embargo internazionale, l’accesso agli oltre 9 miliardi di dollari dei fondi dello Stato chiusi nelle banche americane e il ritorno degli aiuti umanitari dall’estero. «Lavoriamo giorno e notte per cercare di risolvere i problemi. Presto arriveranno gli stipendi degli impiegati statali», ha reso noto tre giorni fa il premier talebano, Mohammed Hassan Akhund. Ma l’impasse resta palese. La comunità internazionale non ha ancora trovato il modo di inviare aiuti senza legittimare i talebani e rafforzare indirettamente il loro regime. Occorre si trovi presto un sistema: i bambini continuano a morire.