Il Sole 24 Ore, 29 novembre 2021
Il Covid ha inguaiato sei lavoratori su dieci nel mondo
Andare avanti, nonostante tutto, se pur impoveriti e spesso costretti a un brusco cambiamento nella propria vita professionale. A un anno e mezzo dall’inizio della pandemia che tipo di lavoratori siamo diventati? Uno studio internazionale, realizzato da Adp Research Institute, mette in fila un numero significativo di dati sulla sfera professionale ma anche su quella privata, per tracciare un identikit del cambiamento in atto.
Lo studio ha raccolto le risposte di un campione vario: 32.471 lavoratori di 17 Paesi, tra cui oltre 8.567 lavoratori della gig economy. Diverse le leve analizzate: vanno dalla motivazione alla tipologia delle trasformazioni che si è stati costretti ad affrontare e alla perdita di reddito e di sicurezza.
Il posto di lavoro
Partiamo dall’elemento più critico: quasi due terzi dei lavoratori globali (64%) ha dichiarato di aver subito un contraccolpo professionale dall’emergenza pandemica. In alcuni casi questo impatto ha avuto risvolti assai critici: oltre un quarto (28%) ha perso il lavoro o è stato messo in condizioni analoghe alla nostra cassa integrazione. Quasi un lavoratore su quattro (23%) ha subito una riduzione dello stipendio, per quanto l’impatto non sia stato uniforme: i lavoratori più giovani infatti sono stati i più penalizzati. Mentre una percentuale analoga (22%) ha dovuto affrontare una riduzione dell’orario o delle responsabilità.
Lo studio ha monitorato pure gli effetti sul comportamento determinati dallo stato di preoccupazione generale: i timori legati all’insicurezza per l’occupazione hanno costretto tre quarti degli intervistati (76%) a cambiare le proprie mansioni, assumendo spesso compiti extra, o facendosi carico di un maggiore numero di progetti o lavorando più ore. Questo scenario è particolarmente grave nel Paesi Apac (Asia Pacifico) e in America Latina, meno evidente in America del Nord o Europa.
In Italia
E il nostro Paese come si colloca in questo scenario? In Italia il 40,5% dei dipendenti intervistati (circa 2.000) ha dichiarato di aspettarsi esiti negativi sulla propria carriera nei prossimi due anni. A perdere il lavoro (per licenziamento, mancato rinnovo o cassa integrazione) è stato il 23,5% dei ragazzi di età compresa tra i 18 e 24 anni, segue la generazione dei Millennials (25-34 anni) con l’11,5%, la fascia 35-44 con il 9%, per poi scemare al 6% e 5% per le fasce più alte. Nel complesso la pandemia, in linea con quello che è successo nel mondo, ha avuto un impatto significativo sulle posizioni dei lavoratori italiani: quasi la metà (46%) ha fatto dei cambiamenti o sta pianificando di cambiare “come” e “dove” vive (28%).
Una situazione che, se pur difficile, nel contesto nazionale lascia intravedere anche elementi rassicuranti. Perché, se è vero che all’inizio della pandemia il controllo dei lavoratori da parte dei datori è aumentato - per circa un lavoratore italiano su tre (38%) il monitoraggio dell’azienda sul proprio lavoro è diventato più rigido -, allo stesso tempo «il lavoro da remoto - si legge nello studio - ha portato i datori di lavoro alla ricerca di nuove opportunità per aumentare il grado di visibilità dei dipendenti e comprenderne meglio le esigenze».
Le prospettive globali
In conclusione si potrebbe dire, come fa il report, che «l’ottimismo vacilla ma resiste»: il Covid-19 ha certamente intaccato la fiducia dei lavoratori, ma la maggioranza (86%) afferma ancora di sentirsi fiduciosa e, guardando al futuro (nei prossimi tre anni), il 52% dei lavoratori ha una visione positiva grazie all’offerta di una maggiore flessibilità sul lavoro e alla possibilità di sviluppare competenze (52%).