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 2021  novembre 29 Lunedì calendario

Nella base di Guantanamo, tra balere e campi da golf

Quando nel 2009 Barack Obama ordinò la chiusura del carcere di Guantanamo, emerse subito che tra i propositi abolizionisti dell’ex presidente americano e la realtà dei fatti si interponesse un muro invalicalibale. I cui mattoni poggiavano sul ginepraio legale attorno al quale era stata costruita la prigione quattro mesi dopo gli attentati dell’11 settembre 2001. «Ci vorranno anni per chiuderla», ci spiegò l’ammiraglio Tom Copeman, comandante della Joint Task Force che gestiva l’intera prigione, appena ci precipitammo sull’isola per quello che doveva essere l’«ultimo reportage». Oggi il carcere è ancora operativo ma la base navale che lo ospita si è trasformata, diventando una sorta di «Little America» immersa nel turchese mare dei tropici. A vent’anni dall’apertura (il prossimo gennaio) della struttura detentiva per terroristi islamici, infatti, Gitmo ha mutato pelle rispetto alle origini quando solo il nome evocava l’immagine di uomini con tute arancioni ritratti attraverso le sbarre delle celle, come in una sorta di cuore di tenebra caraibico.
Base navale Usa dal 1903, l’enclave a stelle e strisce sull’isola di Cuba – considerata covo della «blasfemia yankee» dal regime castrista, e «spina nel fianco dell’Avana» dagli strateghi di Washington – è oggi popolata da circa seimila persone tra militari, civili e famiglie al seguito. I quali ne hanno fatto qualcosa di più di una grande prigione. Pur rimanendo un avamposto della Us Navy, spiega il New York Times, presenta le caratteristiche delle piccole città Usa e le comodità di un campus universitario, assumendo le sembianze a metà tra resort di frontiera e comunità autarchica. Nei suoi oltre 116 km quadrati ci sono le scuole gestite dal Pentagono, un porto per la Marina e la Guardia costiera, bar, locali, balere, palestre, parchi, spiagge, spazi per barbecue e barche da noleggiare per escursioni nella baia.
Ha un McDonald’s con un Drive Thru (per l’hamburger da asporto) abbastanza largo da permettere il passaggio ai veicoli tattici, come gli humvee, e sulla collina svetta il campanile di una chiesa in mattoni bianchi in stile coloniale. A dieci minuti di auto si arriva a Nob Hill, un quartiere residenziale per circa 700 famiglie. In altri dieci minuti si arriva a un campo da golf a nove buche, alle spalle del quale si erge la grande cancellata di ingresso alla zona detentiva, sotto il comando di un generale di brigata dell’esercito che è responsabile degli ultimi 39 prigionieri di guerra del Pentagono e di uno staff di 1.500 persone, per lo più soldati della Guardia Nazionale in servizio per turni di nove mesi. C’è un poligono di tiro mentre un’unità tattica di Marines è responsabile della sicurezza sul lato americano, il versante adiacente al territorio cubano è tutelato da un campo minato. Si parla americano e spagnolo, ma anche tagalog e creolo perché per un terzo i residenti sono filippini e giamaicani assunti da contractor del Pentagono. La base ha anche migliaia di gatti selvatici, discendenti di felini che sono arrivati alla base via terra, o di gatti domestici lasciati dalle famiglie dei militari.
Gitmo è comunque una base del Pentagono: i droni sono vietati, i reporter devono sottoporre ogni singola foto che scattano alla censura militare. C’è una politica di tolleranza zero per l’alcol, se si viene sorpresi alla guida dopo aver bevuto ubriaco, può scattare il decreto di espulsione da parte del comandante, il capitano Samuel «Smokey» White. Esiste un servizio «car pooling» volontario chiamato «Safe Ride» in modo da impedire che la gente si metta al volante dopo aver bevuto, ed un’associazione organizza incontri per alcolisti anonimi tre volte a settimana. L’ospedale offre assistenza familiare e annuncia la nascita del primo bambino di ogni nuovo anno sul suo sito web. Le feste comandante, infine, vengono celebrate come da tradizione. Ad Halloween vige il fanciullesco «dolcetto o scherzetto», mentre la sera del 4 luglio i fuochi d’artificio illuminano a giorno la base, non prima però che il comandante abbia mandato opportuna comunicazione ai vicini cubani: «È l’indipendenza, non sparate».