La Stampa, 29 novembre 2021
Joséphine Baker, la prima artista nera al Panthéon
La donna che è riuscita a far vibrare la libertà domani entra al Panthéon, tra i grandi di Francia. Joséphine Baker arriva dove sarà impossibile non vederla dopo una vita con tutti gli occhi addosso e un lungo oblio, decenni in cui in pochi sono riusciti a guardarla.
L’americana che si è innamorata della Francia: cantante, attrice, ballerina, signora della resistenza e di uno spettacolo che proprio non sapeva dove metterla. Lei, capace di essere comica e sensuale insieme, di portare una cintura di banane, di dettare mode e respingere giudizi. Di essere indipendente, sempre, nonostante le infinite sottomissioni.
Ha costruito la sua strada, il suo successo, ha tenuto lo sguardo alto pure quando le hanno detto che per avere pubblico doveva esibirsi a seno nudo. Ha ospitato i partigiani in casa propria, ha passeggiato con un ghepardo, ha abitato un castello che ha chiamato «Arcobaleno» e lo ha popolato di figli adottati in diverse parti del mondo, educati a religioni differente. Allora pensavano che volesse provocare, oggi sappiamo che voleva semplicemente vivere.
È la prima donna nera ad avere l’onore del Panthéon, la sesta in assoluto e ci sono 76 uomini, ma non è questo a fare della sua investitura un momento storico. È la prima artista, femmina o maschio che sia, con il diritto di riposare nel tempio della gloria e quindi sta per diventare la prima faccia non bianca in cui la Francia intera può riconoscersi. Non è scontato. Tutto questo succede a meno di sei mesi dalle elezioni presidenziali in cui Macron, che l’ha voluta lì, cerca voti contro le ultra destre. Cerca di mettere insieme le france più diverse in nome di un’unica patria. Il presidente ha definito Baker: «Specchio di una Francia universale, sintesi di ogni tipo di coraggio». C’è chi lo accusa di usare questa celebrazione per la campagna, ma Baker merita di stare lì. A prescindere da qualsiasi polemica, immune alle strumentalizzazioni. Non si è mai lasciata manipolare e si è garantita un’eredità tanto forte da proteggere anche le sue ceneri.
Nasce in una famiglia povera, a Saint Louis, nel 1906 e attraversa i continenti e la storia. È una meticcia ai tempi della segregazione, obbligata a sposarsi a 13 anni, maltrattata da un marito che la pretende serva. Scappa e si risposa perché ha bisogno di rispettabilità in un’epoca in cui al suo sesso non viene data, ma del secondo marito si tiene solo il cognome e lo consegna all’eternità, Baker. Abbandona gli Usa a 19 anni perché sa che lì non le lasceranno fare quello che vuole e va a Parigi a cercare fama. La trova anche se all’inizio è una sequenza di umiliazioni o almeno lo sarebbe se Baker ammiccasse e cedesse. Invece si diverte, ride: non seduce, attrae, puoi solo restare affascinato dalla classe che di colpo lei stessa smonta con una boccaccia. Piroetta e inciampa, nello stesso numero, coinvolge, non si lascia etichettare, conquista. E crea un’immagine che non esisteva prima. Lo fa mentre la Francia, che lei si immaginava senza divieti, è immersa nel colonialismo. Per questo quando muore diventa memoria difficile da gestire.
Canta «Si j’etais blanche», una frase indicibile pronunciata con un’ironia destabilizzante: bianca per fare quello che ai neri non è concesso. Si scontra con una cultura che sa applaudirla però non la capisce e quando torna negli Stati Uniti, coperta di attenzioni e piume preziose, è convinta che si aprirà ogni porta. Gliele sbattono in faccia, è ancora il Paese che ha leggi diverse a seconda del colore della pelle. Saluta definitivamente, si risposa in Francia per avere la nazionalità e modifica i versi di uno dei suoi brani più noti: in «J’ai deux amours», «mon pays et Paris» diventa «mon pays c’est Paris», tanto francese da cambiare pure il Panthéon. —