Specchio, 28 novembre 2021
Intervista ad Aksel Lund Svindal
Aksel Lund Svindal, l’ultimo re della discesa olimpica, non gareggia da due anni ma è sempre in vetrina: l’entusiasmo dei tifosi nei confronti dell’ex capitano del team norvegese di sci alpino è rimasto al top. Come quando, con il suo sorriso accattivante e il talento del predestinato, sbranava piste e avversari. La sua vita avventurosa è diventata un film («Aksel» - la storia di Aksel Lund Svindal) e l’anteprima di Bolzano è stata un successo. Applausi scroscianti per il campione capace di vincere due medaglie d’oro alle Olimpiadi, due coppe del mondo generali, 36 gare del circo bianco e cinque titoli mondiali. Spinto dalla classe innata e dalla stessa passione per la neve di quando era bambino. Immagini tutte toccanti, quelle ufficiali alternate alle inedite rivelazioni del backstage, per scoprire «dall’interno» le emozioni e le ombre dell’atleta. Dalle prodezze ai giorni del dolore per la morte della madre quando Aksel aveva solo otto anni, al lungo percorso compiuto con il fratello (Simen Lund) e il papà (Bjorn) che si è messo sulle spalle la famiglia «gestendo» i due orfani e usando lo sci come terreno di comunicazione comune per cementare l’unione. E poi lo spaventoso incidente sulla pista di Beaver Creek, negli Usa, nel novembre 2007 che gli ha provocato la rottura del setto nasale e allo zigomo, cinque denti "crepati" e un taglio sulla coscia sinistra di circa 15 centimetri. Immagini inedite e drammatiche, come quelle del dopo operazione in ospedale, riprese in diretta dall’amico Filip Christiansen diventate un film grazie alla «Red Bull», da sempre al fianco di Svindal. Un omaggio al re che ha deposto gli sci e che oggi si divide tra gli impegni da manager (è anche socio in una startup e in un’azienda di abbigliamento per sciatori), quello per lo sci e la difesa dei diritti civili.
Aksel, il film è molto emozionante, come la tragedia della morte di sua mamma. Non è stato facile superare quei giorni tristi.
«Ci ha salvati la famiglia. Il capolavoro, la fatica più grande, l’ha fatta mio padre. Ad un certo punto pensava di dover mollare il lavoro ma gli sarebbe spiaciuto tantissimo perché l’azienda l’aveva creata lui. Io avevo otto anni, mio fratello sei e abbiamo capito subito che avremmo dovuto essere amici per non creare problemi a mio padre. Non ce lo siamo mai detto ma è stato così. La magia dei bambini è che non pensano troppo, io avevo bisogno di giocare, poi è arrivato lo sport e ha aiutato tutti e due. Perché ti abitui a vincere e a perdere, e impari a trovare un equilibrio, un percorso molto formativo».
Come è stata la sua gioventù?
«Siamo cresciuti diciamo... in comunità. Un po’ come succede a voi italiani. La nonna materna veniva a casa nostra il martedì e quella paterna il giovedì, ci aiutavano nei compiti. Gli altri giorni della settimana stavamo dai vicini, il figlio è un nostro carissimo amico, e spesso pranzavamo da loro. Poi lo sci occupava i fine settimana, era il fulcro della nostra vita. Molto ruotava attorno a quello e mio padre si alternava con gli altri genitori per portarci agli allenamenti e alle gare».
Molte volte lei ha sfiorato o superato il suo limite. Qual è l’impresa di cui va più fiero?
«La vittoria di Beaver Creek nel 2008, un anno dopo l’incidente. È stata una sfida con me stesso. Vincere lì mi ha dato una fiducia incredibile ed è stato molto emozionante. Dopo l’incidente ho quasi pensato di smettere. Se avessi smesso non avrei mai superato a livello inconscio la paura. Tra i successi più belli, quello di Vancouver, poi la Coppa del mondo generale, una sfida che si ripete ogni giorno per tutta la stagione. I miei idoli da bambino erano quelli che vincevano la Coppa. Poi il secondo oro olimpico, in Corea e la mia ultima gara ai Mondiali in Svezia dove ho diviso il podio con Jansrud. C’erano tantissimi tifosi. Jansrud ed io abbiamo dato spettacolo. C’era anche la famiglia reale norvegese, che ha assistito anche alla presentazione del film».
Tornando alla vittoria dopo il tremendo incidente di Bevaer Creek, come ha trovato le energie per tornare?
«Avevo solo 24 anni... e una vita sportiva davanti. Non potevo arrendermi. Quando ero infortunato dovevo fare riabilitazione da solo, una noia terribile. La voglia di tornare in squadra è stata una grande motivazione. Non puoi essere felice solo se vinci. La vita vera è quando scii in squadra e ti diverti con gli altri».
Come riusciva a superare la paura in gara?
«Uno sciatore prima deve capire esattamente la situazione e poi calcolare il rischio. Il segreto sta nell’isolare e analizzare ciò che ti angoscia. Lo stesso procedimento mentale l’ho sempre fatto a Kitzbuehel, davanti alla Mousefalle o all’Hausbergkante, i punti più difficili della Streif. Diciamo che quando ho rivinto a Beaver Creek ero davvero convinto di farcela. Lì ho analizzato il tracciato alla perfezione, isolando il tratto più difficile. Se non parti con la convinzione di tagliare il traguardo per primo, non vinci mai. La mente comanda su tutto e io ho imparato a governarla».
Ha mai usato la meditazione o si è mai affidato ad uno psicologo?
«No. Questo è il mio modo di essere, penso e mi autogestisco. Ad esempio a Beaver Creek nel 2008 ho elaborato la gara nella testa. Se mi alleno bene, divento più forte mentalmente. Se la preparazione che ho seguito è di alto livello, mi sento forte, ma ho scoperto da solo cosa è giusto per me».
Lei è stato il capitano degli "attacking vikings". Una leggenda nel circo bianco. Crede che la sua personalità abbia tarpato le ali al compagno di squadra Jansrud?
«No. Lui ha sempre seguito il mio stesso percorso di crescita. Quando ho cambiato sci, lui mi ha seguito. È naturale, Kjetil ha imparato molto ma ha anche fatto le sue scelte. Io ero più veloce in discesa e in supergigante ma nel 2012 mi ha raggiunto e a quel punto abbiamo iniziato a gareggiare uno contro l’altro, sempre collaborando. Poi abbiamo diviso lo stesso skiman. Perché in questo modo potevamo provare un maggior numero di sci e ricavare un vantaggio rispetto agli altri. Abbiamo sempre lavorato così. In Norvegia c’è un solo atleta che lavora da solo, Kristoffersen (gigante e slalom). Ma è triste. La Norvegia ha sempre seguito il sistema-squadra in 30 anni di sport. Da Aamodt e Kjus in poi».
Cosa pensa di Kilde?
«Per lui quest’anno sarà dura conquistare la Coppa del mondo perché arriva da un infortunio, però in superg e discesa è forte. Aspettatevi molto da Jansrud, è all’ultima stagione e darà tutto».
A febbraio sono in programma le Olimpiadi a Pechino. Lei ci sarà?
«No. Non appoggio un Paese che non rispetta i diritti civili. È troppo triste vedere i Giochi in un clima così, mi spiace per gli atleti. E poi con il Covid è difficile muoversi. Aspetto le Olimpiadi a Milano-Cortina, ed è importante che tornino in Europa».
Nessuno ha provato la pista di discesa in Cina....
«È così per tutti. Io in Corea non avevo mai sciato lì perché ero infortunato e ho vinto la medaglia d’oro in discesa, nella mia ultima Olimpiade. Per me è stata la stessa cosa anche nel 2010 a Whistler, in Canada, dove ho vinto il mio oro in supergigante».
Scia ancora?
«Certo! Mentalmente è un grande cambiamento. Un esempio? Quando sei un atleta sfrutti il tempo sulla seggiovia per ripassare la pista. Da quando sono diventato un turista, invece, mi godo il panorama. Solo ora ho capito a fondo il motivo dell’enorme popolarità dello sci. Se ci pensa, non esistono così tante attività che si possano condividere con tutta la famiglia e gli amici nella natura».
Il suo momento preferito sugli sci?
«All’alba, con la prima neve».
Nostalgia per le gare?
«Sì, mi viene quando vedo le foto che postano i miei ex compagni di squadra. Prima di Lake Louise sono stati in Colorado a sciare, il miglior momento della stagione. Perché viaggi e ti alleni con persone incredibili e alcuni di loro sono i tuoi migliori amici. È come essere in gita con i boyscout. Siamo sempre in contatto, mi chiamano per un confronto».
Ci parla della sua attività di imprenditore?
«Ho una startup, è uno stile di vita simile allo sport, un pensiero che ti accompagna sempre. Inoltre ho investito in diverse società e sono nel board. Una di queste si occupa della qualità dell’aria negli spazi chiusi e durante il Covid abbiamo notato un aumento esponenziale. Il nostro mercato più grande è l’America. Quello dell’imprenditore è un’attività molto rischiosa, ho iniziato nel 2013. Alcune startup hanno successo, altre sono andate male. Ma, anche se perdo dei soldi, non è un problema perché ho acquisito competenze e conoscenze. La cosa che più mi interessa è che in questo ambiente stanno uscendo molte idee nuove. Questo mondo ha dei problemi. Le startup, facendo leva sulla tecnologia che nei prossimi dieci anni avrà un boom ancora più pazzesco, possono già progettare le soluzioni che ci aiuteranno».
Svindal, ha mai pensato di tornare alle gare?
«No. C’è un tempo per tutto e il mio è passato».