Specchio, 28 novembre 2021
Ritratto di Quentin Tarantino
Eravamo tutti certi che l’arrivo di Quentin Tarantino a Roma avrebbe garantito un grande successo di pubblico, ma ne avevamo sottovalutato le dimensioni. I biglietti sono stati venduti nel giro di quattro minuti, compresi i posti più scomodi e laterali: 1300 persone entusiaste di accogliere e celebrare il loro idolo, di ascoltare il modo in cui racconta il cinema che ama e che dirige. E lui non ha deluso il pubblico: è uno straordinario uomo di spettacolo, Quentin, ma è soprattutto un uomo che ama divertirsi e divertire. L’entusiasmo era incominciato già dal red carpet, dove il pubblico ha ritmato il suo nome dal momento dell’arrivo, e in quel momento mi ha molto colpito un elemento di inaspettato candore: «Ascolta, urlano il mio nome» ha detto, commosso, alla moglie Daniella.
È il regista più celebre e idolatrato del mondo, ma è prima di ogni altra cosa un bambino geniale con un rapporto onnivoro con il cinema: «Non sono mai andato a una scuola di cinema – ha spiegato – sono andato a vedere i film, e rubo da qualunque film sia mai stato realizzato». Il suo amore per il cinema considerato di serie B e C non nasce in alcun modo da snobismo, ma dall’intelligenza con cui sa scoprire i tesori, il mestiere e a volte l’autentico talento all’interno di operazioni di genere, persino nei sottoprodotti. Nei giorni in cui è rimasto a Roma ho avuto modo di parlare con lui di registi diversissimi: da Fellini a Enzo Castellari, passando ovviamente per Sergio Leone che lui chiama solo con il nome di battesimo, e venera più di ogni altro. «Il buono, il brutto e il cattivo è il mio film preferito», mi ha detto, come se fosse impensabile metterlo persino in discussione, e ha ricostruito la scena del triello in molti dei suoi film.
Quentin non è interessato ad analizzare la differenza di qualità, ma la dedizione con cui hanno realizzato le loro opere, e nessuno come lui intuisce che il minimo comune denominatore tra l’highbrow e il lowbrow, la cultura alta e quella popolare è proprio la cultura, non l’eventuale differenza di sostanza. Mi sono sempre chiesto quanto abbia influenzato sul suo carattere il fatto che non abbia mai conosciuto il padre Tony, e che la madre lo abbia messo al mondo quando aveva solo sedici anni. Mantiene la sua genialità da enfant prodige anche ora che ha 58 anni: non saprei altrimenti come definire e apprezzare la sua capacità, unica del cinema, di essere nello stesso tempo efferato e lieve. Su questi due poli antitetici ha costruito l’ultima grande rivoluzione della Settimana Arte, e ha ragione Peter Bogdanovich a dire che è il regista più influente della sua generazione, ma quello che nel suo cinema è leggero e folgorante, negli epigoni diventa greve e insopportabile. È un bambino quando racconta come sia rimasto terrorizzato nel vedere Bambi di Walt Disney, e ogni suo giudizio, commento, apprezzamento è sempre spiazzante e illuminante. In una cena in suo onore intervenne Paolo Taviani: «La notte di San Lorenzo è un capolavoro – gli ha detto – e la più bella storia di lupi mannari mai girata è quella presente in Kaos». Quando ha incontrato Marco Bellocchio si è limitato a imitare il gesto che fa Lou Castel quando fa spinge la madre in un burrone con due dita: il cinema è questo, per Quentin un’immagine un gesto, un’emozione.
Ho sempre avuto qualche perplessità morale rispetto al suo modo di stravolgere la storia di eventi drammatici quali il massacro di Bel Air o persino l’Olocausto. Quando ho tentato di provocarlo su questo tema lui si è limitato a rispondermi che chi non condivide questo approccio è il benvenuto a vedere altri film, e forse la risposta migliore me l’ha data Zadie Smith, la quale invece ne apprezza questo approccio catartico: «Sono giocosi revenge movies» mi ha detto, film nei quali il regista coinvolge lo spettatore in vendette immaginarie spesso simili ad atroci situazioni di abuso. Molti dettagli della sua biografia sono diventati leggendari, ma non è lui ad alimentarne il mito: quando parla ad esempio nel periodo in cui lavorava in un negozio di videocassette spiega che: «Non sono diventato un cinefilo perché lavoravo lì. È il contrario: mi hanno preso a lavorare in quel posto perché ero molto appassionato di cinema e sapevo tutto sull’argomento». Vale lo stesso per il periodo in cui lavorava come maschera in un cinema pornografico, prima di cominciare a scrivere sceneggiature che verranno poi realizzate da Tony Scott (Una vita al massimo) e Oliver Stone (Natural Born Killers), con il quale ebbe uno scontro durissimo per il modo in cui quest’ultimo rimaneggiò il suo copione originale. Durante il soggiorno romano era presente anche lui, e hanno fatto di tutto per evitarsi, con evidente fastidio.
È appassionato quando consiglia agli aspiranti cineasti di «Non aspettare un grant per le condizioni perfette: girate il film», ed è contagioso quando teorizza che il cinema deve rimanere in pellicola: è l’unico supporto con cui proietta i film nel suo cinema New Beverly. Mi sono sempre chiesto come sarebbero venuti i progetti non realizzati, come il film sui fratelli Vega (Michael Madsen delle Jene e John Travolta di Pulp Fiction) o 007 Casino Royale. Tra i tanti, strabordanti talenti, Quentin ha quello di riscoprire e valorizzare attori in crisi, dimenticati o sconosciuti: appartiene al primo gruppo John Travolta, che deve a Pulp Fiction la rinascita della sua carriera, al secondo Robert Forster e Pam Grier, e al terzo Christoph Waltz, che a lui deve due premi Oscar. Ripensando a quello che mi ha detto Zadie Smith, ritengo che C’era una volta Hollywood sia prima di ogni altra cosa un atto d’amore per un mondo cinematografico scomparso, e il sogno sincero, e tenero, che Sharon Tate e i suoi amici sopravvivano alla furia omicida della famiglia Manson: trovo commovente il finale in cui la povera Tate invita i personaggi immaginari del film a prendere un drink: è tutto assolutamente falso, ma è cinema allo stato puro, o, se preferite, la materia di cui sono fatti i sogni.