Specchio, 28 novembre 2021
Biografia di Eugenio Finardi raccontata da lui stesso
Pronto? Per favore, mi può richiamare? Le sto rispondendo con lo smartwatch, se mi richiama rispondo dal telefono». Indizio per riconoscere il vero ribelle: non è mai fuori dal tempo, non vive su una nuvola e, a dispetto di certe rappresentazioni romantiche, non anela il ritorno a un passato mitico e idealizzato. A uno come Eugenio Finardi lo smartwatch non lo togli più dal polso. Quel concentrato di tecnologia pret-à-porter gli ha salvato la vita poco più di un paio di settimane fa, mentre era in coda all’aeroporto: «Fibrillazione atriale in corso», gli diceva, con tanto di linea rossa dell’elettrocardiogramma, proprio mentre era in coda all’aeroporto di Linate per andare a suonare in Puglia. Concerti rinviati, grandi ringraziamenti ai medici dell’aeroporto e dell’ospedale, rassicurazioni via social agli amici e ai fan dopo gli esami di rito. In oltre mezzo secolo di musica ha scritto pezzi di storia, da Musica Ribelle a La Radio, da Extraterrestre a La Forza dell’Amore, da Le ragazze di Osaka a Dolce Italia. Ma non ha mai smesso di guardare cosa c’è intorno: e cosa c’è al di là del recinto di un’etichetta, quella di «rocker italiano» in cui non ha mai voluto essere rinchiuso e imbalsamato. Ribelle per indole, non per anagrafe.
Finardi, innanzitutto come sta ora?
«Di tutte le cose che possono arrivare a al cuore di un quasi settantenne la fibrillazione atriale è il male minore. Nella sfortuna è stata una fortuna. L’ho già avuta, ci ho anche fatto un disco, Fibrillante, anni fa, registrato a Torino e prodotto da Max Casacci dei Subsonica. Un disco molto rock. Allora la fibrillazione era legata alla tiroide, invece ora è comparsa semplicemente per l’età».
Non lo toglierà più dal polso.
«Cambierò modello. L’orologio fa l’elettrocardiogramma e tiene d’occhio una serie di parametri che mi hanno permesso di capire cosa mi stava accadendo. All’aeroporto, in coda, un po’ trafelato, puoi anche pensare che sia solo un affaticamento. L’orologio alla fine è un salvavita».
Pare di capire che lei abbia un buon rapporto con la tecnologia, è così?
«Io adoro la tecnologia. Sono un amante del digitale, non sono per il ritorno al vinile. Essendo nato nell’era analogica mi ricordo la rottura di palle che era. Il digitale è straordinario».
Scorrendo il suo profilo su Facebook sembra avere anche un rapporto sano con i social media.
«Ecco, adoro la tecnologia, ma penso che Facebook sia una grandissima iattura. I social media sono stati un danno più grande di quanto possiamo pensare. Hanno permesso l’elezione di Trump, ad esempio. Aizzano odi, sono tarati per esacerbare, per esagerare, per attirare l’attenzione. Non riflettono la realtà. Non è solo che tiriamo fuori il peggio, credo che il mezzo stesso incattivisca, faccia montare la rabbia. Poi certo, dipende anche da come li usi: spesso ci sono discussioni interessanti. Per esempio, dopo la fibrillazione mi sono iscritto a un gruppo Facebook per chi ne soffre e ho trovato un ambiente amichevole e rassicurante».
Scorrendo i ricordi che a volte posta sul suo profilo, si legge che ha scoperto i Rolling Stones da adolescente, e le cambiarono la vita. Chi era quel ragazzino di 13 anni?
«Io sono nato metà italiano e metà americano, con due lingue, due culture: questa cosa ha segnato molto la mia vita. Ogni anno dispari andavo a fare le vacanze in America, un po’ come i meridionali immigrati al Nord che tornano al Sud in estate. E lì, in tv, nel 1965: vidi gli Stones, ne fui fulminato e mi innamorai del blues».
L’America, un altro mondo: quando tornava in Italia come si sentiva?
«Mi sentivo abbastanza solo, sempre molto diverso dagli altri. L’Italia negli Anni 50 era molto omologata: tutti i bambini avevano i pantaloni corti blu e le bambine la gonna plissettata, la camicia bianca e le calze bianche fino al ginocchio. Mia madre invece mi vestiva con le tutine americane che adesso mettono anche i nostri bambini, ma i miei compagni di scuola mi chiamavano "benzinaro". In questo senso mi sento molto vicino alla generazione dei Ghali, dei Mahmood. Ghali cantava "quando mi dicono torna a casa, io rispondo: sono già qui": quella frase, torna a casa tua, la dicevano a mia madre pensando che fosse tedesca perché era molto bionda e aveva anche un accento strano. Quando ero piccolo ricordo in tram un paio di volte di aver sentito "torna al tuo paese": e ora che ci sono molti italo-qualcosa mi sento meno solo».
I Rolling Stones, i giovani artisti: sa che le tocca la domanda sui Maneskin, vero? Lei peraltro aveva già esultato per i loro successi anche prima del mini tour americano.
«La loro vittoria a Sanremo è stata importantissima, perché per la prima volta non ha vinto una lagna… non voglio fare nomi...».
No? Peccato.
«Diciamo che parlo più o meno di tutti quelli che hanno vinto Sanremo. È bello che i Maneskin abbiano vinto con quel pezzo e con quell’atteggiamento strafottente. Ok, non sono la rivoluzione, ma cosa vuol dire? I due pezzi che io ascolto di più sul mio telefono quando sono in giro sono lo Stabat Mater di Giovan Battista Pergolesi del 1736 e il secondo pezzo è La Grange degli ZZ Top. I Maneskin sono la prima cosa italiana che non è pizza e mandolini che esce fuori dal nostro Paese... voglio dire… ma dai, diciamolo: il Volo, porca miseria, dai!».
Alla fine ha fatto un nome.
«Non è possibile che quando si parla di Italia all’estero si parli del Volo. Questa è una delle cose per cui io sono cresciuto ribelle, con l’intenzione di cambiare la musica italiana. E insieme al collettivo, la Cramps, e con un gruppo di straordinari musicisti, l’abbiamo cambiata la musica, anche in modo abbastanza radicale».
Ma era più facile o più difficile essere ribelli quando lei ha cominciato a fare musica?
«Era più difficile, e soprattutto non rendeva economicamente. In Italia non c’era democrazia nella comunicazione. Esistevi solo se andavi in certi programmi, come Canzonissima, con i quali la tv ha creato miti esagerati di artisti che erano poco pericolosi per il sistema. La censura era preventiva: consisteva semplicemente nel non dare spazio a chi parlava contro il sistema. Gli Area in tv non passavano».
Oggi gli spazi non mancano: forse sono i giovani che non sono così ribelli?
«Io credo che l’atteggiamento di quasi tutti i giovani sia ribelle. Greta è una ribelle, ad esempio. Spesso però il problema oggi è che i giovani sono un po’ ribelli senza causa, perché anche la ribellione è diventata un prodotto. La forma moderna di censura non è impedire: ti dicono semplicemente che per certe cose non c’è mercato. La ribellione è controllata: e quindi c’è più frustrazione, più rabbia. C’è pochissimo futuro».
Parliamo di passato. Di recente ha postato una foto in bianco e nero che le ha portato una sua fan: era il 1981, con lei ci sono il batterista Alfio Cantarella e un serissimo Franco Battiato. Che rapporto avevate?
«Franco era un amico. Lo conoscevo dal 1973. Avevo 21 anni quando l’ho incontrato. Ha suonato il sintetizzatore nel mio primo 33 giri nel 1975, e poi abbiamo condiviso la stessa agenzia, e quindi lo stesso gruppo di lavoro, all’inizio degli Anni 80 quando lui fece La Voce del padrone, Patriots, L’era del Cinghiale bianco. A dispetto della sua apparenza così seria, Franco era un mattacchione. Lui e Sgalambro erano veramente Bibì e Bibò. Erano divertenti e se diventavi l’obiettivo dello scherzo non c’era scampo. Anche Lucio Dalla era molto spiritoso, ma in modo diverso da Battiato, aveva un umorismo più tagliente. Ma questa cosa delle persone che non sono come te le aspetti l’ho verificato in generale».
In che senso?
«Durante eventi come il Cantagiro, o Un disco per l’estate, capitava spesso di essere a cena con colleghi e artisti vari. Ricordo serate con dei comici che di persona erano di una serietà assoluta e se per caso ti scappava una battuta correvano a scriversela. Invece a Bologna mi è capitato di andare a cena da solo con Claudio Lolli in una trattoria, e immaginavo che chissà di quali temi alti e importanti avremmo parlato: abbiamo passato una serata ridendo e raccontandoci barzellette».
Altra foto di quel periodo: 1980, San Siro, concerto di Bob Marley.
«Forse uno dei concerti più belli della mia vita, non so se il più bello. Quel giorno, chi c’era non se l’è dimenticato. Tra l’altro io feci ascoltare Bob Marley a Lucio Battisti per la prima volta».
E quando?
«Io ero appena arrivato dall’Università in America, e mi portavo dietro nuovi dischi che ancora qui non c’erano. Io allora ero sotto contratto all’etichetta Numero Uno, fondata da Mogol e Battisti per lanciare nuovi artisti. Un giorno Lucio mi chiamò e ricordo che andai da lui con uno scooterino arancione che si chiamava "Lui", era chiamato il motorino delle ragazze, era di mia sorella: andai fino in Brianza a Molteno a casa sua dove aveva una stanza con gli strumenti, un divano, due grandi casse da studio e i giradischi. Portai la mia borsa di dischi, glieli feci ascoltare, lui era molto curioso, mi chiedeva di tradurre quello che dicevano. Ho avuto il privilegio di conoscere svariati geni: il primo tour l’ho fatto con De Andrè, per dire. Facevamo lunghissime chiacchierate. Lui detesta essere trattato come una "sacra reliquia", parole sue. E io parlavo con lui normalmente. Per età, ero un po’ a metà strada tra lui e Cristiano, quindi ero un ponte tra loro. Aprivo i suoi concerti nella sua prima grande tournée in Storia di un impiegato nel 1975. Lui non era mai stato in una grande tournée, non sapeva che il gruppo di apertura non va considerato: e così viaggiavamo insieme, parlavamo di politica, di tutto. Poi ho avuto la fortuna di conoscere anche Carmelo Bene, che mi ha dato lezioni di vocalità».
Questo non c’è sulla sua biografia, ci racconti.
«Non lo sa nessuno, è una cosa antecedente alla mia fama, ero proprio agli inizi e stavo con un’attrice che recitava con lui. Erano al Manzoni, e mi invitavano al ristorante dopo lo spettacolo. Quando seppe che ero un cantante figlio di una cantante lirica, mi insegnò a usare i segni facciali come cassa armonica a proiettare la voce in alto a sinistra, in alto a destra, verso l’occhio verso il mento: è difficile da spiegare, ma mi insegnò il potere della voce, qualcosa che poi mi è rimasto».
Ci sono anche molti artisti che devono molto a lei. Uno su tutti: Ligabue.
«Angelo Carrara, il mio manager e anche il manager di Battiato, era un grande talent scout. Ma quando arrivò la cassetta di un certo Ligabue, mandata da Pierangelo Bertoli, era perplesso. Noi Ligabue lo conoscevamo come organizzatore di concerti a Correggio, dove era stato anche consigliere comunale. Forse io ho fatto addirittura un capodanno a Correggio. Gli dissi di prenderlo subito. Credo che la canzone fosse Sogni di Rock’n’roll: sentii queste chitarre, questo atteggiamento rock e mi piacque molto».
Nel 1987 usciva Dolce Italia. Lei cantava «In Italia la gente è più sincera, la vita è più vera». Riscriverebbe quei versi oggi? O vede un paese incattivito?
«La scriverei ancora, io credo sia ancora così. L’Italia è veramente dolce. Io non vedo un Paese incattivito, semmai vedo un mondo incattivito, e credo che in larga parte questo sia dovuto anche ai social. Camminare per strada portando a spasso il cane ti dà molto più il polso di come è la gente veramente».
Quanto le è pesato il lockdown e lo stop alla musica?
«È stata durissima, come per tutti i musicisti. Non che per gli altri sia stato facile, ma a chi fa il mio mestiere ha tolto il modo di esprimersi, come se a lei togliessero la possibilità di scrivere, oppure le dicessero: puoi farlo, ma soltanto a casa tua e con una matita un po’ spuntata. È stato veramente uno stress, anche fisicamente. Anzi, se mi chiede come mai mi è venuta questa fibrillazione atriale, io la colpa la do al lockdown».