In quale quartiere di Napoli sei nato?
«In un vicolo a San Pietro a Patierno, l’ultimo quartiere di Napoli, non distante dall’aeroporto Capodichino. Sono cresciuto con i nonni materni a Casoria. Mio nonno voleva da me due cose: che fossi un fan di Giacomo Rondinella, che io detestavo, e comunista. Gli chiedevo: nonno, chi sono i comunisti? Sono quelli che la pensano come noi, rispondeva. Nonno, ma noi come la pensiamo? E che ne so, diceva. Sono cresciuto nella povertà: non c’erano vestiti, vacanze, regali. Qualche volta vedevamo la televisione a casa di una vicina. Non mi piaceva la scuola, preferivo la libertà della strada con i suoi giochi, in particolare il pallone dove un po’ eccellevo. Sognavo di fare il calciatore. Ero Gaetano, non ancora Nino. Il primo soprannome che mi fu dato era “Semmenzella” che è un piccolo chiodo per risuolare le scarpe. Mio padre era scarparo. E andò pure a lavorare fuori pur di mantenerci. Crescendo mi diedero un secondo soprannome: “Miezumetro”. Non ero alto, non lo sarei mai diventato. Ma ero determinato a crescere in un altro modo».
È stata complicata diciamo questa “crescita”?
«Un misto di volontà, fortuna e talento. Non so in che ordine, ma questi sono stati gli ingredienti. Ho cantato in parrocchia, alle feste nelle piazze e poi ai primi provini. C’era un posto a Napoli, c’è ancora, dove vanno tutti quelli che vogliono cantare. E lì si incontra gente che fa i mestieri più diversi: cameriere, sguattero, pescatore, io allora facevo il posteggiatore. E quel posto era stato battezzato da Sergio Bruni “Il cimitero dei cantanti”, lì gli aspiranti artisti non nascevano, morivano».
Ma tu non sei morto, anzi.
«Ho fatto il cantante posteggiatore e gorgheggiavo nei ristoranti. Il gelataio per portare qualche soldo a casa. Sono passato a cantante di matrimoni. Avevo il mio repertorio. Tenevo pure l’abito adatto, colore verde. Cantavo davanti agli invitati e agli sposi.
Piacevo, anche se le canzoni erano spesso tragiche: storie di sangue, di delitti, di amori passionali e tradimenti che finivano male, di padri morti per un incidente, di famiglie finite sul lastrico. Ma vuoi essere un po’ più allegro, mi dicevano».
Ti preparavi alla “sceneggiata”.
«Vengo dalla sceneggiata. È un genere classico, come la tragedia greca. Ha uno schema semplice che io ho un po’ ampliato: un triangolo composto da “Isso” un lui e da “Essa” una lei e poi c’è “’O malamente”, il cattivo. Il pubblico si immedesima al punto che quando il cattivo fa la sua azione perfida, urla, avverte la vittima: sta attento, voltati, non bere perché quel fetente ha messo il veleno. È un susseguirsi di emozioni e si arriva al punto che anche quando la sceneggiata è finita il cattivo viene preso a male parole, insultato, a volte percosso».
Il re della sceneggiata era Mario Merola.
«Fu un autentico protagonista: generoso e incazzoso in egual misura. Mi prese a ben volere, come pure prese a ben volere Gigi D’Alessio. Si divertiva a metterci l’uno contro l’altro per vedere come reagivamo. Ma alla fine io e Gigi diventammo amici».
Tu racconti che foste gli unici due cantanti a non essere invitati alla commemorazione di Pino Daniele. Perché?
«Secondo gli organizzatori noi difendevamo una Napoli tradizionale che non c’era più. Ma caspita se c’era e lo dimostrava il successo che avevamo. Per me e per Gigi, Pino è stato un grande innovatore della musica. Il più grande. E nel suo nome incominciammo un tour insieme Figli di un re minore che abbiamo interrotto per colpa della pandemia».
Sei stato considerato il primo dei neomelodici.
«La parola “neomelodico” è bella, ma è diventata un calderone. Chiunque oggi canta in napoletano diventa un neomelodico. Io sono un cantante che ha impiegato cinquant’anni per diventare cantante napoletano».
Una delle critiche al neomelodico è che diffonde valori legati al mondo della malavita. Piccoli boss camorristi o figli di camorristi sono diventati cantanti neomelodici.
«Il neomelodico viene prima della camorra. La camorra ha solo approfittato del fenomeno. Ci si è infilata perché è un mercato che produce soprattutto consenso nei quartieri».
È vero che tu e la tua famiglia aveste delle minacce al punto da decidere di trasferirvi da Napoli a Roma?
«Fu un periodo orrendo. Sparavano contro le nostre finestre di casa, telefonavano ai nostri numeri privati minacciandomi».
Perché ti avevano preso di mira?
«Per i soldi. Volevano una tangente dai miei ricavi. Ce ne siamo andati per non subire il ricatto. La camorra è il marcio di Napoli».
Ha condizionato o influito sul tuo successo?
«Mai, perché qualunque cosa loro ti danno la vogliono indietro moltiplicata per cento. Il mio successo lo devo a me, ma soprattutto alla gente che mi ha voluto bene. Gli abitanti del quartiere dove sono nato hanno voluto realizzare un grande murales con la mia immagine. Quando mia moglie me lo ha detto ho provato imbarazzo ma anche un’infinita gratitudine per quel gesto».
Come hai vissuto il successo?
«All’inizio era qualcosa di inebriante. Dopo un po’ non capivo più se ero Gaetano o Nino. Mi sentivo scisso tra la povertà da cui provenivo e la ricchezza che cominciava ad arrivare. Sono ricorso a uno psicologo. Non è stato semplice trovare un equilibrio tra due mondi così opposti. Non è facile guardarsi allo specchio e dire ce l’ho fatta!».
Perché?
«La povertà è l’odore che ti porti sempre addosso».
Ma eravate davvero così poveri?
«Papà diceva in certi momenti: Gaetà io lavoro per cercare lavoro e non mi pagano per questo. Gaetà tu vuo’ fa il cantante? Ma noi siamo nati per sopravvivere, così diceva. Ero il primo di sei figli, il primo a dover sopravvivere. Dicevo: “Ma papà, forse ho talento”. E lui rispondeva: “Ma quale talento, se non hai una raccomandazione, e qui nessuno ti raccomanda, pigliate almeno la terza media e dammi una mano».
Ma tu il talento veramente te lo sentivi?
«Lo vedevo riflesso negli occhi ammirati delle persone che mi ascoltavano. Ho iniziato a cantare a nove anni. Venivo messo in piedi su una sedia e cantavo un po’ di repertorio: O zappatore ma soprattutto le canzoni di Sergio Bruni, e la gente diceva a mia madre “Questo bambino ha un grande dono fatelo cantare”. Per incidere il primo disco mi chiesero varie centinaia di mila lire. Non le avevo. Affrontai i miei parenti più stretti: fate conto che sia il mio funerale e che ciascuno di voi metta una piccola cifra. Ecco. Non è meglio donare questi soldi quando ancora sono vivo? Raccolsi 500 mila lire e li diedi al discografico. Morì il giorno dopo. Non ci potevo credere».
Cosa facesti?
«Dicevo: ma dov’è il morto, fatemelo vedere. Pensavo alla truffa, ma era morto veramente. Andai perfino da Sergio Bruni e gli dissi maestro io volessi cantare. Mi rispose: a primma cosa, mparate a parlà! ».
Ti sei molti ispirato a lui?
«Per me è stato il più grande».
Più grande di Roberto Murolo?
«Anche Murolo è un monumento. Sono due leggende napoletane. Come mettere a confronto Raffaele Viviani e Eduardo De Filippo. Puoi parteggiare per l’uno o per l’altro. Io ho amato di più Viviani, perché ho interpretato il suo teatro. Così come ho amato Bruni per le sue canzoni. Maradona mi diceva: Nino, cantami Carmela. Bruni è stato incantevole e strano, con quella “mezza voce” che lo dovevi proprio ascoltare da vicino tanto era flebile. È stato il più grande creatore di silenzi che io abbia mai conosciuto».
Il rapporto con Maradona come è nato?
«Volle conoscermi. A Napoli ero popolare quanto lui. Andai a trovarlo con mio figlio allo stadio San Paolo dove si allenava. Sono malato di calcio e vedermelo di fronte che mi parlava e palleggiava con le spalle, sì con le spalle, la destra e la sinistra, era incredibile. Ci siamo un po’ frequentati. Spesso ci vedevamo a casa di Giuseppe Bruscolotti, grande difensore del Napoli, dove cenavamo».
Cosa pensi dei suoi guai, del suo declino, della sua morte avvenuta giusto un anno fa?
«Ha pagato con gli interessi gli errori che ha fatto. Si sentiva addosso tutto il peso del personaggio che era diventato. E questo lo ha schiantato. Diego aveva un difetto che è anche un pregio, si fidava di tutti. E purtroppo si è fidato anche delle persone sbagliate.
Ma la bellezza di Maradona persona, per come l’ho conosciuto, fu unica».
Hai visto “ È stata la mano di Dio” il film che Sorrentino gli ha dedicato?
«Mi è sembrato un film intimo e bello. Senza retorica. Lui è un grande regista che è dovuto andare via da Napoli per realizzarsi. Ma il fatto che abbia dedicato un film alla propria storia, alla sua Napoli e a Maradona, che un po’ l’ha incarnata, è un bel gesto. Sorrentino appartiene alla Napoli “alta”, al Vomero, mentre io vengo dalla Napoli povera, dell’estrema periferia. Ho dovuto fare molta più strada».
Nel percorso hai trovato persone che oltre a volerti bene ti hanno stimato. Penso a Goffredo Fofi o a Nicola Lagioia che ha scritto la prefazione al tuo libro.
«Gliel’ho chiesta io dopo che c’eravamo conosciuti e sono felice che abbia accettato. Quanto a Fofi mi ha aperto una porta su un mondo di cui non sapevo niente. Gliene sono grato perché per me è stato come un modo per provare a rinascere dopo gli anni della depressione».
So che è stato un periodo molto duro per te.
«È arrivato subito dopo la morte di mia madre. Non credevo che avrei reagito così».
Così come?
«Prova a descrivere il nulla. Non si può. E io ero diventato il nulla. Non volevo pensare, mangiare, lavarmi, uscire. Non sapevo perché? Era la vita che stava sotterrando la mia anima. Sono andato avanti per quasi quattro anni dentro questo oscuro dolore. Poi sono lentamente riemerso e ho capito che non bisogna vergognarsi di questa malattia. Va curata e posso dirti che avendocela fatta sono più maturo, come più matura è la mia musica. In fondo le mie canzoni hanno sempre avuto il pregio di somigliare alla mia vita. Io sono stato il poeta che non sa parlare e quando ho parlato l’ho sempre fatto a modo mio».