Robinson, 27 novembre 2021
La pace secondo Cesare Zavattini
Quando diedi l’indirizzo al tassista, via Sant’Angela Merici, lui si voltò e sorrise: andate da Zavattini? Una volta ci ho accompagnato De Sica… Con Aldo Rosselli su incarico della Cooperativa Scrittori volevamo dar vita ad un antico progetto del più imprendibile dei nostri scrittori: Le cento parole che fanno e disfanno il mondo. Era il 1978. Il progetto, come poi ci spiegò Zavattini stesso, risaliva alla fine della guerra. Si trattava di invitare un certo numero di scrittori a trattare le voci più significative, come oro, sangue, pane… Zavattini era un affabulatore straordinario: il mio sogno, raccontò, è quello di andare di notte con un grande sacco e portare un libro nelle case di tutti gli italiani. Mentre parlava fingeva di camminare a passi felpati, reggendo l’immaginario sacco sulla spalla. Con Rosselli lavorammo per un po’, ma il libro non si fece perché la Cooperativa cominciò ad avere delle difficoltà e poi si sciolse. Al progetto Zavattini ci teneva e ci tornò su in una lettera: ai progetti si affezionava ed era capace di portarli avanti per decenni, come dimostra adesso anche un volume intitolato La Pace – Scritti di lotta contro la guerra appena pubblicato dalla Nave di Teseo e curato da Valentina Fortichiari con uno scritto di Gualtiero De Santi, da molto tempo frequentatori e studiosi della galassia zavattiniana. È, “la Pace”, un libro- specchio nel quale si riflette la lunga carriera di Za ( come molti lo chiamavano). Una vita per inseguire la Pace. Se ci si pensa è già un caso singolare: noi abbiamo molti scrittori che hanno testimoniato la guerra, le trincee, la prigionia, da Serra a Lussu a Gadda e Ungaretti, tanto per buttare lì qualche nome alla rinfusa. Qualcuno la guerra l’ha anche esaltata come i futuristi di Marinetti o D’Annunzio. L’antiretorica di Zavattini si riallaccia, come scrive Fortichiari nella prefazione, a Voltaire e a Kant. Bisogna diffondere la pace, non la guerra, magari progettando un’ora dedicata alla pace nelle scuole o un cinegiornale ad hoc. Sono temi (e progetti) intorno ai quali Za lavora in modo instancabile. Nel ’ 55 vince addirittura il Premio Internazionale per la Pace di Helsinki. Non andrà a ritirarlo, mandando però un testo in cui afferma che la ricerca della pace deve diventare una scienza. Uomo di cinema, oltre che scrittore originalissimo, Zavattini pensa per immagini, come quando fa fermare una bomba a mezz’aria che incombe sui protagonisti di una storia. E alle bombe ritorna spesso, fino al film La Veritàaaa (1983) dove uno Zavattini ottantenne interpreta un pazzo che vive in manicomio e odia la pace. Zavattini non è solo nel ragionare sulla pace. Non per nulla incrocia, nel suo lungo cammino, i movimenti che contrastano la bomba nucleare dagli anni Cinquanta, intreccia relazioni coi pacifisti come Aldo Capitini e come Danilo Dolci, punti di riferimento per azioni concrete. Ascolta la voce degli studenti del Movimento nato nel ’ 68 di cui si avvertono echi in testi come Fare una poesia alla vigilia della guerra che è appunto di quell’anno e rimase allo stato di abbozzo.
Nel ’ 73 Zavattini raccolse le sue poesie in dialetto ( il dialetto di Luzzara, tra Reggio Emilia e Mantova) in un libretto di Scheiwiller intitolato Stricarm ‘in d’na parola (Stringermi in una parola). Pasolini lo accolse con una recensione straordinaria (raccolta poi in Descrizioni di descrizioni). Il dialetto era un ritorno alla civiltà contadina, ad una umanità più autentica. Non sono certo il primo a dirlo, ma tra i due c’era una parentela non occasionale, una ricerca che li accomunava. Non è Stracci ( La ricotta) un possibile amico di Totò il buono? Tutti e due volevano, s’intende in modo diverso, mandare i poveri in paradiso. Comunque, tra le poesie in dialetto, ce n’è una che si intitola “Cumplean” e che così comincia: “Abás la guera abás!” Non c’è bisogno di tradurla. Tra questi versi si circola ancora in bicicletta, tra le strade del paese, a un passo dal Po. «Ho visto un funerale così povero/ c’an ghéra gnanc’al mort». Zavattini umorista? Anche, ma è sempre qualcosa di più, basta riprendere in mano i suoi primi libri, a cominciare da Parliamo tanto di me a Totò il buono che poi diede vita al film Miracolo a Milano, perché Zavattini era il cinema, un cinema che pedinasse gli uomini (era una sua ossessione) per mostrarne l’intima natura. Attraverso la finzione, naturalmente. Carlo Battisti, eminente lessicografo, autore con Giovanni Alessio di un celebre dizionario etimologico pubblicato nel 1950, accettò di interpretare un pensionato sull’orlo del suicidio in Umberto D. ( il capolavoro neorealista che non piacque ad Andreotti). Aveva la faccia giusta e tanto bastava. A proposito di facce: Einaudi ristampa in questi giorni Un paese, che uscì nel 1955. Si tratta di un album di fotografie, che il fotografo americano Paul Strand, che Za aveva conosciuto e inviato nel proprio paese natale, scattò a Luzzara per circa un mese. Andava in giro con un ex emigrato che sapeva l’inglese e gli spiegava luoghi e persone. Poi Zavattini scrisse una prefazione e le didascalie per ogni foto. Il libro è invecchiato bene e diventa sempre più ricco e fascinoso man mano che il tempo passa, con un effetto Spoon River che non guasta. I concittadini di Zavattini ormai ci parlano da un altro tempo, illuminando soprattutto la vita quotidiana, fatta di piccole cose, il lavoro, l’ombra incombente del Po, colpevole della grande inondazione del ’ 51. Zavattini avrebbe voluto che iniziative del genere si ripetessero in tanti paesi italiani, ma il progetto si arenò e di fatto uscì solo il libro su Luzzara.
Sapeva bene ( e lo scrisse) che gli uomini possono essere feroci. Per questo la ricerca della pace non si esaurisce mai e qualunque iniziativa non è mai sufficiente. Zavattini non credeva nei grandi miracoli, ma in quelli piccoli sì. Quando Totò il buono dice “tac” ( la sua formula magica) gli compare davanti un padellino dove sfrigolano due uova. Mangiare per i poveri è già un paradiso.