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 2021  novembre 27 Sabato calendario

Sono io il profiler dell’Fbi

Il primo a indagare scientificamente la figura del serial killer fu ( e non poteva essere altrimenti) Cesare Lombroso. Il padre della criminologia classica era un giovane studioso di trentacinque anni, insegnava psichiatria a Pavia allorché fu incaricato di periziare Vincenzo Verzeni, un contadino analfabeta del bergamasco che fra i diciotto e i ventidue anni si era reso responsabile di sei aggressioni a sfondo sessuale, uccidendo due donne. Correva l’anno 1872, Roma era appena diventata capitale d’Italia e mancava ancora un bel po’ di tempo perché le orribili gesta di Jack lo Squartatore imponessero la figura del “mostro” letterario. Lombroso dichiara Verzeni semi- infermo di mente, attribuendo l’origine della sua mania omicida al cretinismo originato dalla pellagra, malattia al tempo endemica. I giudici se ne infischiano, lo danno sano di mente e per un solo voto il giovane scampa alla pena di morte. Lombroso non è per niente convinto dell’esito della vicenda processuale. Torna sul caso. Ottiene il permesso di incontrare nuovamente Verzeni. Approfondisce l’analisi. Visita, interroga, analizza, descrive, ammette i limiti della sua stessa perizia. Scopre un dato che lo colpisce e atterrisce allo stesso tempo: quel disgraziato prova piacere nel delitto e ne è pienamente consapevole. Si è al cospetto, annota, di un caso eccezionale, uno di quei “cinque o sei” che la scienza riconosce: Verzeni commette atti mostruosi, che sfidano i limiti della comprensione umana, e dunque trascendono l’umano, ma che nello stesso tempo sono perpetrati con perfetta lucidità. È necessario, conclude, istituire dei manicomi criminali nei quali collocare «questi esseri, in cui non esiste più quasi una linea di confine fra il delitto e la pazzia». Si può ironizzare finché si vuole sull’ostinazione con la quale Lombroso inseguiva la corrispondenza fra i tratti somatici degli individui e la devianza ( eppure tanti aspetti sono oggi rivalutati dalla genetica) ma gli si deve riconoscere l’ideazione di un metodo ancora oggi insuperato nella ricerca scientifica. Lo stesso metodo che cento anni dopo Robert K. Ressler, un militare di brillante ingegno transitato nella fila dell’Fbi, riuscirà ad imporre, dopo un’ardua lotta senza esclusione di colpi, all’agenzia investigativa federale. È epica la battaglia che Ressler racconta in questa sua autobiografia — Monsters. I miei vent’anni all’Fbi a caccia di serial killer — scritta con Tom Schachtman. La sua idea di studiare serial killer accertati per trarne informazioni utili alla definizione delle caratteristiche di questo tipo criminale, in vista della cattura di quelli ancora in circolazione – in altre parole, il “profiling” – viene sarcasticamente respinta al mittente dai burocrati del Bureau: noi i delinquenti li prendiamo e li mandiamo in galera ( quando non sulla sedia elettrica), non ci interessa mica studiarli! È la solita, eterna contrapposizione fra progresso e oscurantismo: parte dal giudice che sente minacciato il suo potere dalla complessità delle questioni poste dai saperi non strettamente giuridici, lambisce l’arbitro di calcio ostile alla tecnologia elettronica, si radicalizza nel coatto che apostrofa il premio Nobel col canonico «questo lo dice lei».
Ressler alla fine la spunta. Incontra Manson, Kemper, Dahmer e altri criminali efferati. Elabora un protocollo per conquistare la loro fiducia, o comunque la loro attenzione sfuggendo nel contempo alla loro tendenza a manipolare il prossimo. I risultati non si fanno attendere. Richiamato sul campo in indagini in corso, riesce a tracciare profili che portano alla cattura dei colpevoli. Nel suo primo ipotizza che ad agire sia un giovane bianco asociale e trasandato. I fatti gli danno ragione. Sembra stregoneria, ma è solo scienza. Salva vite umane, e non è cosa da poco. Serve, la scienza, anche la più sperimentale. Molto compreso nel suo ruolo, un po’ narcisista, rivendica di aver ideato la locuzione “serial killer” e si vanta di aver ispirato registi e scrittori.
Critico verso la pena di morte, terrebbe in vita anche i più cattivi per due ottime ragioni: risparmiare un sacco di soldi ( le esecuzioni costano milioni di dollari) e acquisire nuove conoscenze. Alla fine, dopo una vita di ricerca ( morirà nel 2013), perviene a conclusioni che Lombroso avrebbe condiviso: una e una sola definizione di serial killer è impossibile enuclearla. Ma qualcosa si può dire: che dietro ogni mostro c’è un enorme, insondabile abisso di infelicità che appartiene a milioni di esseri umani. La maggior parte di noi si ferma in tempo, i peggiori, o solo i più sfortunati, non ce la fanno e cercano di combattere la propria sofferenza seminando dolore. Fermarli è doveroso, ma lo è altrettanto studiarli.