Robinson, 27 novembre 2021
Nuova cronaca dal processo sul Bataclan
1. Il punto di vista del gendarme
Entrare nel palazzo di giustizia durante il processo del Bataclan è come prendere l’aereo: devi mostrare, a due sbarramenti successivi, il tuo accredito e i tuoi documenti, devi passare sotto un metal detector, devi svuotare zaini e tasche e se in più hai una bottiglia d’acqua dietro devi berne un sorso per provare che non si tratta di Tatp, il liquido esplosivo che i jihadisti chiamano «la madre di Satana». I gendarmi che effettuano questi controlli sono scrupolosi e al contempo, senza eccezioni, straordinariamente amabili. Prendono tutte le precauzioni che gli è stato ordinato di prendere, ma mostrano con sorridente cordialità che non è a noi che sono rivolte. Noi chi? Noi avvocati, giornalisti, parti civili, che nessuno, anche qui senza eccezioni, potrebbe scambiare per dei terroristi. Per quanto addestrati al sospetto, i gendarmi non sono palesemente in stato di vigilanza massima quando vedono avvicinarsi, il tesserino appeso al collo, un tipo come me: sessantenne, bianco, disinvolto, l’aria del bravo cittadino che non ha niente da rimproverarsi e ha così poco timore di essere controllato nella metro che di fatto non ha alcuna possibilità di esserlo. Chi è, allora, che sarebbe sospetto agli occhi dei gendarmi? Chi è che li metterebbe immediatamente in allerta? La risposta è inconfessabile ma sicura: un individuo «di tipo maghrebino», come dicono i rapporti di polizia, vestito con una tuta o una felpa con cappuccio. Ora, di individui del genere fra di noi non ce n’è neanche uno. In due mesi non ne ho incrociato nessuno nei corridoi del palazzo. I soli che si possono vedere in questo processo sono nella gabbia degli imputati.
2. Il punto di vista dell’esperto
È la logica del «noi e loro» allo stato più puro. Noi, democratici pacifici, gente onesta su cui il processo degli attentati del 13 novembre 2015 agisce come una potente macchina per la costruzione di comunità, legame, identificazione. Ci assomigliamo, ci comprendiamo, ci riconosciamo. Dall’altra parte, loro. Loro che non ci assomigliano, che non conosciamo, che non comprendiamo. Questi giovani opachi, «questi individui che escono fuori dal nulla, che emettono segnali deboli», come li definiva il procuratore François Molins, tutto quello che crediamo, vagamente, di sapere su di loro è che vogliono la nostra morte e che anche per se stessi preferiscono la morte alla vita. Allora siamo contenti che degli esperti, dei ricercatori, vengano in aula a dirci chi sono e che cosa hanno nella testa. Il primo di questi ricercatori si chiama Hugo Micheron. È un arabista, professore a Princeton a 33 anni, bella faccia, ben vestito e così palesemente parte del lato buono della società che ci si chiede come abbia fatto a ottenere la fiducia di un centinaio di jihadisti che ha intervistato per cinque anni, nei quartieri da dove sono venuti, in Siria, dove sono andati, nelle prigioni in cui si trovano attualmente. Eppure l’ha ottenuta, e io ho trovato appassionante quello che racconta. Il mio compagno di squadra dell’Obs, Mathieu Delahousse, che mi aveva già consigliato il suo libro, Le jihadisme français ( Gallimard, 2020), ha detto senza mezzi termini alla fine della sua deposizione che il ragazzo aveva «acceso la luce».
Una delle tante idee che mi hanno colpito nella sua esposizione: un jihadista noi lo consideriamo come un enigma, come un pericolo, ma anche come una vittima, il prodotto malato e crudele di una società malata e crudele. Per arrivare a quel punto, pensiamo, bisogna essere stati rigettati, umiliati, emarginati da un sistema socioeconomico impietoso, senza altra scelta se non la delinquenza o una religione divenuta folle. Micheron non nega che tutto questo sia vero e che, fra i jihadisti che ha incontrato, molti possano essere considerati come delle vittime in quell’accezione, che rientra nell’ambito della lotta di classe. Ma quello che non bisogna mai dimenticare, dice, è che loro non si considerano come delle vittime. Neanche lontanamente. Si considerano, al contrario, come degli eroi, l’avanguardia di un grande e irresistibile movimento di conquista planetario. Le vere vittime, ai loro occhi, sono i miserevoli musulmani «moderati», alienati, collaborazionisti, che vogliono credere che l’islam sia compatibile con i valori della società corrotta in cui vivono. Sono gli infedeli che si pretendono – come me e immagino come voi – aperti e tolleranti, quando gli unici rispettabili fra questi infedeli sono gli identitari di estrema destra, perfettamente d’accordo con i jihadisti nel riconoscere la radicale incompatibilità delle loro civiltà. C’è un orgoglio jihadista, una fiducia jihadista che spiega perché i programmi di deradicalizzazione funzionino così male. Avrebbe funzionato altrettanto male se l’Impero romano nel I secolo dopo Cristo avesse lanciato dei programmi di decristianizzazione: l’unico risultato sarebbe stato di esaltare ancora di più i candidati al martirio. Quando uno impegna la propria vita in una battaglia giusta e gloriosa, in cui temprerà il suo animo, in cui la vittoria è assicurata in terra come in cielo, come fai a convincerlo a schierarsi con il campo dei perdenti? Perché i perdenti hanno il potere – provvisorio, derisorio – di metterti in prigione?
3. Il punto di vista della prigione Non mi sembra di aver letto questa cosa da qualche altra parte: la prigione, dice Micheron, è lì che succede tutto ormai. Nel 2017 l’Europa, repentinamente come c’era entrata nel 2015, è uscita da una fase di attentati parossistica. Il califfato è crollato, Daesh è a brandelli, si vorrebbe credere che questa minaccia sia relegata al passato. Ma nella storia del jihadismo ci sono periodi di ripiegamento e periodi di espansione, sistole e diastole come in qualsiasi storia, a cominciare dalla storia del profeta che predica alla Mecca nell’ombra e nel segreto, per pochi compagni, prima di cominciare a Medina la sua carriera pubblica e la prodigiosa serie di conquiste militari. La rovina di Daesh, è l’analisi di pensatori del jihad ( sì, esistono), è stata l’eccessiva precipitazione. È stato il credere che fosse arrivata la fase di Medina, mentre siamo ancora nella fase della Mecca. Una piccola avanguardia eroica era pronta, ma non la massa dei credenti, nemmeno il 10 per cento della massa dei credenti, che avrebbe fatto pendere le cose a loro favore. Si impone un ripiegamento tattico, c’è bisogno di una base e questa base è la prigione.
È il laboratorio del jihadismo di questi anni 20. Su una popolazione carceraria per metà musulmana, l’arrivo di un centinaio di revenants, di «ritornanti», con il capo circonfuso dell’aureola dell’avventura siriana, ha avuto un effetto devastante. Abbiamo cominciato disseminandoli in diversi luoghi di detenzione, dove la loro influenza è stata tale che tutti i detenuti criminali comuni, a Fleury-Mérogis, hanno urlato di gioia per ore all’annuncio del massacro di Nizza, nel luglio del 2016. Allora abbiamo tentato un’altra politica, il raggruppamento, e abbiamo creato le Upra, unità di prevenzione della radicalizzazione, il cui nome lascia già perplessi: chi spera di prevenire la radicalizzazione di gente che si è fatta le ossa nei battaglioni d’assalto di Daesh in Siria? Dilemma dell’amministrazione penitenziaria: come tagliare fuori i jihadisti dal resto della popolazione carceraria che rischiano di contaminare senza creare al contempo delle nuove sinergie in quelle università del terrorismo che sono le unità appositamente dedicate? Parole di ritornanti, raccolte da Micheron: «Noi, appena siamo in più di tre nominiamo un emiro». «Attenzione, noi jihadisti siamo entrati in prigione: è una cosa inedita per l’Europa, quello che sta succedendo. Nella storia delle organizzazioni islamiste, dov’è che si sono riformate? In prigione, sempre!». «La domanda è come si evolverà il jihadismo nei prossimi dieci anni. Per me quello che è certo è che il prossimo Adnani [Adnani, ucciso nel 2016, era il portavoce e l’ideologo di Daesh] sarà europeo e molto probabilmente francese, in una prigione francese. Bisogna sapere che qui, in galera, ci sono tanti che si stanno dando da fare!».
(Traduzione di Fabio Galimberti)