Il Sole 24 Ore, 28 novembre 2021
Ritratti e paesaggi dei poeti d’Irlanda
«Io, vento dal mare / Io, onda d’oceano»: così comincia a cantare Amergin, il proto-poeta e mago figlio del capostipite dei Gaeli, Mil. I Gaeli, cioè le tribù celtiche che invasero l’Irlanda e sconfissero il popolo divino dei Túatha Dé Dannan. È l’inizio potente ed evocativo della poesia celtica tramandatoci dal Libro delle Invasioni del XII secolo. Amergin intonò questo canto, secondo la storia mitica, il 1° maggio del 1698 a.C., quando sbarcò in Ériu, l’Irlanda: «Io, vento del mare / Io, onda d’oceano / Io, fragore dei marosi / … Io, parola dei poeti / Io, sgominante lancia della vittoria/ Io, divinità che modella il fuoco nelle menti / Chi altro interpreta le grandi pietre sulla montagna? / Chi conosce le fasi della luna? / Chi sa dove tramonta il sole?». Sciamano, sapiente, vate, poeta: Amergin s’identifica con il mondo della natura perché, nominando le sue infinite manifestazioni – mare, sole, lago, cervo, falco, salmone – lo fa suo, diviene demiurgo divino, e allo stesso tempo interprete della sapienza e di quei fenomeni naturali con i quali è tutt’uno. La prima voce che riecheggia dall’Irlanda vede le cose alla maniera di uno dei druidi, ma quelle “cose” formano quasi il catalogo degli argomenti della poesia irlandese che verrà. Yeats, come in un rito, canterà: «Mi alzo e vado, vado a Innisfree, / mi farò una capanna di canne e d’argilla, / e avrò nove filari di fagioli, e un alveare per il miele /...E lì avrò un po’ di pace: la pace arriva gocciolando lenta, / gocciolando dai veli del mattino fin dove cantano i grilli; / e mezzanotte è tutta un luccichio, mezzogiorno un abbaglio / violaceo». Heaney scaverà la poesia dalla torba, i corpi che affiorano dal passato: salirà dalla terra al vento. Accanto al poeta, narratore e drammaturgo del nulla, Beckett, ci sono i tragici del mondo dei contadini e dei pescatori: il Synge di Riders to the Sea e The Playboy of the Western World, e l’O’Casey di The Plough and the Stars. Il romanziere Flann O’Brien, con la sua Pinta d’inchiostro irlandese e L’archivio di Dalkey, tiene testa a Joyce.
L’Irlanda è fedele alla poesia: subisce l’invasione inglese nel 1171 e sino al 1922 resta terra d’occupazione britannica: affamata dalla carestia, spopolata dall’emigrazione, oppressa, punita per le sue rivolte, privata persino della sua lingua, resta un faro di civiltà: nel Medioevo, da lì partono i monaci a cristianizzare ed educare l’Europa. È in Irlanda che nasce Giovanni Scoto Eriugena, il più grande filosofo europeo tra sant’Agostino e Tommaso d’Aquino. Sono irlandesi alcuni tra i maggiori pensatori e scrittori di lingua inglese: Berkeley e Burke; Swift e Goldsmith, Bram Stoker e Maria Edgworth, Oscar Wilde e George Bernard Shaw, sino ai massimi del Novecento: Yeats, Joyce, Beckett, Heaney. Persino nel periodo più buio, la “poesia diseredata” in gaelico produce un capolavoro come ilTribunale di mezzanotte.
E poi, ci sono i miti: san Brendano che naviga l’Oceano e il Pozzo di san Patrizio; insieme a Cuchulain, il guerriero biondo che domina la narrazione del Tain - La grande razzia - e il suo nemico Fergus; Finn e il figlio Oisín, Cormac il re, e Sweeney, il sovrano trasformato per punizione in uccello vagante per tutta l’isola e invocante l’intera natura: «O cerbiatto, o tu piccolo belante, … O quercia cespugliosa e fogliosa, / svetti alta tra gli alberi; / o piccolo nocciòlo». Riproposti dai poeti moderni, riempiono la nostra immaginazione accompagnandosi alle riscritture dei classici provvisti di folclore gaelico: alla storia di Troia, all’Odissea, all’Eneide. Joyce non è il primo a ricreare Omero: c’è, nel XIII secolo, il Merugud Uilix Mac Leirtis, che narra le erranze e il ritorno in patria di Ulisse, con un Giudice del Giusto che sostituisce Tiresia e, al posto del morente Argo, un enorme cane tricolore che salta incontro al padrone.
È la poesia, però, a farla da padrona: i campi di torba, le scogliere alte sull’Oceano, i loch azzurri circondati dall’erica, il vento che piega l’erba verde delle distese ondulate, i monti dalla cima arrotondata, i currach - le barche di cuoio – che affrontano il mare: sono le cose che nutrono le poesie, in latino, in gaelico, in inglese. Vedere le cose è un titolo di Seamus Heaney, una lirica (che dà il nome a un’intera raccolta), dove il poeta si ritrova in mare al largo di Inishbofin, una piccola isola nell’Atlantico. Mentre attraversa la «profonda e quieta acqua» trasparente alla vista, per tutto il tempo è come se egli guardasse «giù da un’altra / barca a mezz’aria, in alto», dalla quale «vede» tutto il rischio del viaggio. Significa “vedere le cose” in tre modi differenti, con due oggetti, due “cose”, diverse e simultanee: il fondo marino e il rischio della navigazione, l’oggetto esterno e quello interiore.
I poeti di oggi, travagliati dal “Troubles”, trovano in Dante e Omero i loro antenati più vicini. Il più grande, Michael Longley, ricrea in quadri di concentrata potenza i momenti cruciali dell’Iliade e dell’Odissea, ma sa anche celebrare le minuscole uova del lucherino. Dipinge il notturno primevo della nostra letteratura, quello di Ettore nel Libro VIII dell’Iliade, collocando luna e stelle sui «promontori e le punte / come Tonakeera e Allaran dove la marea / volge verso Killary, dove i salmoni lasciano il mare». E torna infine, come fosse in un grande cerchio, al Canto di Amergin: «Io sono la trota che svanisce / tra le pietre per il salto. / Io sono l’anguilla / che indugia sotto il piccolo ponte … Io sono il covo della lontra e / la tana del tasso nelle dune. / Io sono il tasso che annega / tra i detriti nella marea di primavera. / Io sono la lontra morente / in cima al tumulo funebre».