Il Sole 24 Ore, 28 novembre 2021
Elezioni in Libia, colpi bassi e rischio fallimento
Più un rischio che un’opportunità, oppure un’opportunità con grandi rischi? Per l’Italia, ma anche per tutta l’Europa, sulla sponda meridionale del Mediterraneo (e non solo) non c’è dossier più caldo di quello libico. Per come si stanno mettendo le cose, vi sono fondati timori che le elezioni presidenziali, previste il 24 di dicembre, se non gestite in modo oculato da parte di tutte gli attori coinvolti, rischino di riaccendere nuove conflittualità.
Mancano 27 giorni al voto e la quiete sembra virare verso la tempesta. La sentenza di morte emessa da un tribunale militare di Misurata contro il generale”nemico” Khalifa Haftar, signore della Cirenaica e uno dei candidati più in vista, per non farlo correre, appare una mera provocazione. Lo sono anche gli incidenti presso un tribunale di Sabha nel sud, preso di assalto da una milizia armata (erroneamente attribuita ad Haftar) per ostacolare l’appello di Saif al-Islam Gheddafi. O le ripetute minacce tra le fazioni rivali di non riconoscere il voto qualora dovesse vincere un candidato indesiderato. Sullo sfondo un esercito di avvocati sta portando avanti una battaglia fatta di cavilli e interpretazioni di norme giuridiche. Come se non bastasse l’inviato speciale dell’Onu per la Libia, lo slovacco Jan Kubis, ha annunciato a sorpresa le proprie dimissioni. Troppo compiacente verso le iniziative libiche, si vocifera, e deciso a non spostarsi da Ginevra a Tripoli.
La posta in gioco è alta, anzi altissima. Dopo 42 anni di regime, seguiti da 10 anni di caos e una guerra civile che ha spaccato il Paese in due, l’ex regno di Muammar Gheddafi si trova davanti a una svolta storica; le prime elezioni presidenziali di sempre. Tutto è ancora confuso. Anche i nomi dei potenziali vincitori. Ma le sorprese non sono mancate. A cominciare dal nutrito gruppo di candidati: 98.«Più di quanti ci aspettassimo. Segno di una grande frammentazione del Paese. Che in teoria renderebbe il ballottaggio quasi scontato. Ma non dimentichiamoci che siamo in Libia», commenta Claudia Gazzini, analista, esperta di Libia dell’International Crisis Group (Icg).
«A mio avviso non doveva esserci alcuna scadenza elettorale. Era troppo presto per organizzare delle elezioni così importanti – ci spiega Arturo Varvelli, direttore della sede di Roma dell’European Council for Foreign Relatons – Il Paese non era pronto. Da tempo è in vigore uno Status quo. Ognuno gestisce i suoi affari nel territorio da lui controllato senza interferire in quelli degli altri. Una sorta di pace armata».
Parole che si riflettono sul campo. Dove le regioni della Tripolitania e della Cirenaica, anche dopo la tregua seguita all’offensiva di Haftar contro Tripoli, sono state amministrate come due entità autonome, ognuna con proprie forze armate assistite da militari stranieri; i turchi a fianco del governo di Tripoli, mercenari russi a sostegno di Haftar. «Imponendo questo voto tanto voluto dai francesi – continua Varvelli – si rischia di mettere a repentaglio tutto. Queste elezioni sembrano un rischio più che un’opportunità». «Se dobbiamo usare questa formula io definirei questo voto un’opportunità con grandi rischi. I libici vogliono il voto. Non si poteva andare avanti con questo Governo ad interim, con questo premier ad interim Abdul Hamid Dbeibah»,continua Claudia Gazzini.«Il grande problema, tuttavia, è un quadro normativo lacunoso e confuso. Mi riferisco alla legge elettorale dello scorso settembre che presenta parecchie criticità». La legge prevede in teoria che chiunque voglia candidarsi debba dimettersi dalla carica che ricopre, politica e militare ma non solo, almeno tre mesi prima del giorno del voto. Così ha fatto Haftar, dimettendosi da capo dell’esercito nazionale libico, ed il suo collega Aguilah Saleh, dal carica di capo del Parlamento. «Ma quale carica esattamente? Il discorso sembra interessare qualsiasi grado e lavoro. Nulla è chiaro in proposito – precisa Gazzini –. E come calcolare i tre mesi se non esiste ancora un decreto che ufficializza il 24 dicembre come giorno del voto?»
L’Alta commissione elettorale aveva eliminato dalla lista 25 candidati, nessuno per non aver rispettato il termine dei tre mesi, quasi tutti perché avevano precedenti condanne. Molti hanno presentato ricorso. Le esclusioni più in vista sono state quelle del capo dello staff dell’ex Rais, Bashir Saleh (già riammesso), e quella di Saif al-Islam Gheddafi, secondogenito e delfino dell’ex dittatore, che gode ancora di una certa popolarità in Libia e in diversi Paesi dove si trova la diaspora dei gheddafiani.
«Saif può correre, non è stato ancora condannato in via definitiva – ci precisa Mohammed Gilushi, portavoce del comitato di Saif Gheddafi – Le accuse di non essersi presentato in udienza non sono vere. Per motivi di sicurezza era presente in videoconferenza. Una milizia, non di Haftar, ci ha impedito di presentare l’appello, ma siamo fiduciosi di vincerlo. Noi speriamo di avere le carte in regola per arrivare al ballottaggio». Certo, in un Paese sommerso dalle armi in cui diversi candidati sono acerrimi nemici, resta il problema della sicurezza. C’è infine il caso della candidatura del premier Dbeibah. In teoria contro la legge eppur non squalificato. «È stato messo in campo per sparigliare le carte e creare caos. È una mossa puramente tattica».
In questo quadro, se tutto andrà bene, la Libia avrà un presidente. «E con grandi poteri: nominerà il primo ministro, sarà il capo delle forze armate, potrà decretare lo stato di emergenza», continua Gazzini. E chi può garantire che, una volta insediatosi, non voglia attribuirsi anche tutti gli altri poteri? «Qui sorge un altro grande problema. Dal 2014 la Corte suprema non funziona più. Non c’è la possibilità di ricorrere in giudizio contro la legge elettorale né contro il presidente».
Dopo 10 anni la Libia ha bisogno di una svolta, anche per cercare di affrancarsi dalle ingerenze straniere. Ma le prove di democrazia stanno diventando un esame più difficile del previsto.