Il Messaggero, 28 novembre 2021
Intervista a Zerocalcare
Arriva in ritardo, con il fiatone, l’aria sconvolta: «Ho fatto il chioppo», dice, mimando l’impatto della sua macchina contro qualcos’altro. Ma appena prova a spiegare la dinamica dell’incidente, le persone che l’aspettano per il firmacopie, in libreria, scoppiano in un caloroso applauso. La vita di Michele Rech, 37 anni, fumettista, in arte Zerocalcare, è cambiata nel giro di una settimana. La sua serie tv, Strappare lungo i bordi, è la più vista su Netflix. Il suo ultimo libro a fumetti, Niente di nuovo sul fronte di Rebibbia (raccolta di storie uscite sui giornali e un inedito sul dietro le quinte della serie), provoca file bibliche in libreria. E le etichette si sprecano: simbolo di una generazione, bandiera degli oppressi, alfiere della romanità, ultimo intellettuale d’Italia. «È andata oggettivamente super bene – dice lui – ma non me la sto vivendo benissimo. Conto che sbollisca. Lo spero».
Si stupisce di avere successo in tutta Italia?
«No, ho sempre avuto pubblico anche fuori dalla mia città. Non così ampio, ovviamente».
È stato criticato per la scelta del romanesco. Pentito?
«La serie la si può criticare per mille motivi: può essere brutta, può essere che la mia recitazione sia inadeguata. Ma la questione del romanesco è ridicola, non vale nemmeno la pena discuterla. Chiunque sia capace di andare a fare la spesa da solo è in grado di capire Strappare lungo i bordi. Le altre persone o sono in malafede, o hanno bisogno di un pretesto per andare sui giornali».
La cultura italiana è romanocentrica?
«Mi pare evidente che in giro ci siano mille cose diverse in mille dialetti. Qualcuno è meno rappresentato degli altri? Mi dispiace. Ma veramente quello del romanocentrismo è un dibattito che sta fuori dal mondo. Alla gente normale non frega nulla».
Si sente, come è stato definito, l’ultimo intellettuale d’Italia?
«Non è un titolo di cui mi vanto e non mi ci riconosco assolutamente. Appena l’ho saputo ho pensato: mo’ mi rovinano. E infatti sono arrivati gli haters».
Dicono che guadagna come Chiara Ferragni: è vero?
«Spero per lei di no. Ho un tenore di vita che mi va bene. Se anche guadagnassi cento volte di più, quei soldi non saprei come spenderli».
Dai centri sociali a Netflix: il capitalismo ha vinto?
«In una società capitalista il capitalismo vince sempre. Io cerco di rimanere onesto con le persone, di essere coerente. Non rinuncio, pur di ottenere un pubblico più ampio, alla radicalità dei contenuti o al supporto delle cause che sostengo. Ma insomma: questo è il mio lavoro, non è la mia missione. Né ho mai pensato che il mio lavoro fosse trovare la soluzione al capitalismo».
C’è chi ha notato che vive in periferia, ma ha frequentato una costosa scuola francese. Le dà fastidio?
«Da quando ho due mesi abito a Rebibbia. Sono francese e quindi ho fatto la scuola francese. Rebibbia poi non è il ghetto. E io non mi sono mai dipinto come uno del ghetto. Non vedo perché mi debba giustificare».
Mattia Torre (uno degli autori di Boris, ndr) ha raccontato prima di lei la stessa generazione. È un modello?
«Sì, ma inarrivabile. Mattia Torre per me ha fatto le cose più belle prodotte in Italia negli ultimi trent’anni. Non oso accostarmici, le sue cose per me sono un modello assoluto. Quanto a me, credo che le persone che si riconoscono nei miei fumetti siano quelle più impicciate. I miei personaggi parlano poco alle persone risolte. Evidentemente la nostra è una generazione impicciata».
Ora la leggono anche i bambini: che ne pensa?
«Che è buffo. Mi chiedo cosa gli arrivi. Alcuni temi sono molto adulti. Però è vero che quel senso di ansia rispetto al deludere la maestra di cui parlo nella serie io stesso l’ho provato da bambino. E avrei voluto che qualcuno mi dicesse di non preoccuparmi, che se si va male a scuola non si spezza il cuore dell’insegnante».
Il prossimo fumetto?
«Esce tra maggio e giugno, e racconterò del mio viaggio in Iraq. Sicuramente un tema che mi interessa di più della polemica sul romanesco».
La seconda stagione della serie si fa?
«Da quando è uscita la serie la mia vita è diventata cosi invivibile che o trovo una centratura, oppure non mi va di stare ingolfato in mezzo alle polemiche. Non c’è niente al mondo che mi costringa a farlo. Sta a me. Ma se trovo un modo di sopravvivere, la faccio».