il venerdì, 26 novembre 2021
Intervista a Enrico Ghezzi - su "L’acquario di quello che manca" (La nave di Teseo)
Se c’è un occhio catodico che possa raccontare la televisione, come fosse uno stralunamento continuo, questi è certamente Enrico Ghezzi. La Rai è stata la porzione di mondo nella quale ha abitato per più di quarant’anni. Da poco in pensione, sorretto da una curiosità morbosa per tutto ciò che è immagine, ha riordinato la sua storia televisiva consegnandola in un libro di 750 pagine. Un monstrum che è proliferato nei suoi pensieri e direi nei suoi gesti, nei suoi tic, nei suoi fuori sincrono: essere in ritardo per essere in realtà in anticipo. E in anticipo (ma su cosa non saprei) la televisione di Ghezzi lo è stata, puro sperimentalismo di massa. Ha intitolato il suo libro L’acquario di quello che manca (a cura di Aura Ghezzi e Alberto Pezzotta), edito da La Nave di Teseo.
Non hai perso un certo gusto per le frasi oscure, spiazzanti. Si fa una lista di quello che manca. Ma un acquario che c’entra?
"L’acquario è la televisione dove tutto si muove e galleggia, come fosse al rallentatore, in un tempo ritardato, estraniato dalla vita e per questo ancora più vicino alla vita. Quello che mancava nell’"acquario" provammo noi di Rai Tre ad aggiungerlo".
Tu quando arrivasti in Rai?
"Avevo 25 anni, entrai per concorso, l’ultimo che la Rai fece. Scelsi un tema su Roberto Rossellini".
Forse uno dei pochi grandi registi in grado di capire che il cinema poteva anche trasformarsi in una notevole esperienza televisiva.
"Era didattico senza essere pedagogico. Non voleva insegnare, spiegare, giustificare. Ma conoscere le potenzialità di un mezzo. Sperimentava una certa classicità. Per lui, e credo avesse ragione, la televisione era più filosofica del cinema".
Entrasti in Rai e che accadde?
"C’era una rete appena nata. Il mio primo direttore fu Giuseppe Rossini, poi arrivò Angelo Guglielmi cui sono grato per tutta la libertà che mi ha lasciato. Lo ringrazio di aver accettato la mia lentezza ossessiva, renitente, disfattiva. Spezzata da improvvisi cambi di ritmo e dal mio chiamarmi sempre fuori".
Eri un animale raro.
"Per lui credo unico. Gli piaceva - in quello zoo immaginario che era Rai Tre - poter esibire una natura così diversa. In fondo era l’omaggio implicito all’appartenenza al Gruppo 63. Però capitava, anche se di rado, che restasse sconcertato di fronte a certe scelte".
Ricordi qualche episodio?
"Quando trasmisi un intero Gran Premio di Monza visto dalla telecamera di una sola macchina. La mattina dopo mi telefonò: "Sei troppo solipsistico, pensa qualche volta al pubblico e che cazzo! Un’ora e mezza con la stessa inquadratura. Non ti rendi conto? Va bene che vai in onda tardi, ma abbi pietà di noi". Quell’inquadratura fece il record di ascolti di Fuori orario".
Che cosa pensi dell’Auditel?
"Dovrei dirti tutto il male possibile ma non è così. C’è qualcosa di patetico, ma anche di funzionale nell’apprendere che in televisione ci sia un incredibile bisogno di approvazione esterna. Non si può immaginare quanto, anche nell’ultima gazzetta dell’ultima provincia, finisca col contare con i suoi giudizi di plauso o di stroncatura di una trasmissione o di un personaggio. La parola esterna che autorizza, che dice è bravo non è bravo, tiene in pugno la televisione, compresi i più alti dirigenti".
Tutto nasce da quel paleo-algoritmo che è l’Auditel che misura il gradimento su alcuni campioni umani, su alcune prevedibilità. Ma oggi si sa quasi tutto delle nostre preferenze.
"L’Auditel era l’ultima frontiera della riconoscibilità televisiva, oggi è stata superata dai social. Lo smartphone detta i tempi dell’immagine".
Eppure la televisione resta ancora la più ambita a livello familiare.
"Ambita da chi?"
Intanto dal potere.
"Ma sai, il vero potere se c’è non si mostra. Non va in televisione, nei talk show, o a Ballando con le stelle. Quello che di solito vediamo è il teatrino del potere con le sue comparse e qualche raro assolo. È uno specchietto per piccoli giochi politici. Sospetto che qualunque rappresentazione televisiva sia un’allucinazione del potere".
Però molti esponenti di quella vasta nomenclatura ci vanno.
"È vero perché c’è ancora una grande ammirazione per chi passa in televisione. Warhol la definiva la magnifica utopia, quella di essere famosi per 15 minuti. È come stare su un trafficatissimo marciapiede dove sai che prima o poi passeranno tutti. Con una particolarità".
Quale?
"Quando uno appare in televisione è già museo. È già repertorio".
È con questa idea di museo - cioè di raccolta di reperti - che hai lavorato alla costruzione dei tuoi programmi?
"La prima cosa che proposi a Guglielmi fu Schegge. Si trattava di materiali di repertorio quando ancora non esisteva Rai Teche. Per me Schegge doveva essere qualcosa di fastidioso, una punta che si conficca sotto la pelle, col tempo è diventato una sorta di ricaduta di detriti dell’immaginario".
Hai sempre lavorato con i "resti", come insegna Blob, una trasmissione tua e di Marco Giusti.
"La si è immaginata come un’isola galleggiante sulle cui coste le mareggiate portavano di tutto. Blob ha toccato il culmine televisivo di raccolta di reperti televisivi".