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 2021  novembre 28 Domenica calendario

Biografia di Francesco Moriero raccontata da lui stesso

Un paio di zanzare moleste, sistemate con altrettanti ceffoni sugli avambracci, valgono bene uno dei posti di lavoro più ambiti al mondo. “Da quando sono stato nominato ct della nazionale delle Maldive è un continuo di messaggi di ex colleghi pronti a venirmi a trovare”. Non male per chi, decenni fa, è partito da un paesino del Salento e da una famiglia non proprio abbiente (“papà lavorava in ospedale come portantino, mamma puliva le scale”).
Il commissario tecnico “da atollo” è Francesco Moriero, 52 anni, salentino per accento, storia personale e rivendicazione frequente (“pensi che ho esordito tra i professionisti in un derby contro il Bari”) e una carriera “importante” (aggettivo molto amato tra i calciatori insieme a “umile”) tra Lecce, Cagliari, Roma, Inter, Napoli e la maglia della Nazionale. Lui ha scambiato palloni e abbracci con pezzi di storia memorabile del calcio, come Francesco Totti, Christian Vieri, Roberto Baggio, Alvaro Recoba e sua maestà il Fenomeno Ronaldo (“Con lui ho visto cose che noi umani….”).
Mister, non è molto abbronzato.
Macché, sono stato in Sri Lanka per un torneo ed è piovuto per 15 giorni consecutivi.
Il bagno?
Solo la prima settimana; (ride) oh, io qui lavoro.
Quanta invidia intorno a lei?
Nessuna, però ricevo tante telefonate di ex colleghi: mi dicono che da giocatore ero avanti e da allenatore ancora di più.
Vogliono venirla a trovare.
Oh, ma proprio tutti!
Chi?
(Scatta l’elenco infinito, tutti per cognome, come a scuola, come in campo) Inzaghi, Cannavaro, Galante, Colonnese, Cauet, Zamorano, Simeone; Pippo mi ha pure mandato un video: si è reso disponibile per una amichevole, mentre Ganz mi ha chiesto se per caso c’è una nazionale femminile. Comunque qui è una bella impresa.
C’è di peggio…
A me basta avere il mare, da salentino mi sento a casa; poi la federazione mi ha messo a disposizione tutto, i calciatori sono bravi, però c’è un’altra mentalità: qui non sono professionisti, sono ragazzi che la mattina lavorano.
Di cosa si occupano?
Chi il commesso, chi scarica merce nei resort…
In Italia in quale serie giocherebbero?
Forse nell’Interregionale, quasi Serie C, però sono carini, disponibili, persone che ti seguono da subito; in Italia ci vogliono mesi prima di entrare nella testa di un calciatore.
Con lei calciatore quanto impiegavano gli allenatori?
Ho esordito a 17 anni in Serie B e non potevo permettermi di perdere tempo.
Il suo primo match.
Giocavo nel Lecce ed eravamo a Bari: Santin (l’allenatore) mi guardò: “Tocca a te”; poi è arrivato Mazzone e sono diventato titolare.
Mazzone è uno dei grandi personaggi del calcio…
Qui scatta la retorica, ma con lui è semplice vista l’unicità: è stato ed è un uomo fondamentale nella mia vita, non solo in ambito sportivo; (pausa) a quel tempo, nel nostro campionato, giocavano i fenomeni, mica come ora, quindi è riuscito a dosarmi, preservarmi, a rispettare la mia età fisica e psicologica.
Cioè?
All’inizio mi tenne quaranta giorni in ritiro, io e lui da soli, perché doveva insegnarmi i giusti comportamenti, anche alimentari; aveva paura che un ragazzo di talento potesse perdere la testa.
Schiaffoni?
No, però quando alzava la voce erano dolori. Tutti zitti. E le sue regole rigide valevano anche fuori dal campo: alle nove e mezzo eravamo obbligati a rientrare a casa, una sorta di coprifuoco, e alle nove e mezzo esatte squillava il telefono. Se non rispondevo erano guai.
E lei sgarrava?
Ma che è matto? Mai. Anche se ero un po’ birichino. Grazie a Mazzone il primo anno sono stato il miglior giocatore della B, e la stagione successiva il migliore della serie A.
Birichino in cosa?
Vengo dalla strada, quindi la fidanzata, qualche uscita, ma niente di più perché ero conscio di un punto: solo con il calcio avrei potuto sistemare la mia famiglia e gli amici.
Lavoro dei suoi?
Papà portantino, guadagnava 600 mila lire al mese, mamma puliva le scale dei palazzi: tempo dopo ho scoperto che, per mandarmi in ritiro con la squadra e non farmi sentire diverso dagli altri, chiesero soldi in prestito per acquistare magliette, pantaloncini e jeans; (sorride) a casa esisteva ancora la liturgia dell’abito buono per la domenica e le feste.
A scuola?
Non mi piaceva, sono arrivato al secondo anno professionale e da lì ho iniziato con il calcio; (ci pensa) l’alternativa era quella di seguire le orme professionali di mio padre, ci avevo anche pensato.
E invece?
Andai in ritiro con la prima squadra; dopo qualche giorno chiamai i miei: “Se quest’anno non sfondo, vi giuro che inizio a studiare”.
I suoi?
Attenti, rispettosi e sempre dietro le spalle per proteggermi. Ma con pudore; (cambia tono e ammazza una zanzara) venivano agli allenamenti, senza farsi vedere, mentre io raggiungevo a piedi i campi da pallone: anche otto chilometri, pioggia o sole, con il borsone sulle spalle.
Mezzi pubblici?
Il biglietto costava cinquanta lire e ogni volta che li chiedevo a mio padre, rispondeva: “Mi dispiace ne ho solo diecimila sane”; anni dopo mi ha confessato che era una scusa, serviva a verificare se le mie intenzioni fossero serie. Dovevo prendermi le mie responsabilità.
Tutto questo dentro di lei.
Una spinta verticale; quando ho firmato il primo contratto da due milioni di lire al mese, sono andato a ritirare le loro cambiali e le ho coperte. Ancora oggi resta uno dei giorni più belli della mia vita.
Primo sfizio per sé…
La Uno Turbo di seconda mano acquistata da un ex compagno del Lecce: pagata cinque milioni. Lì sopra mi sentivo un re, io che da ragazzino non avevo neanche una bicicletta.
Il suo valore aggiunto?
Oltre la famiglia? Il non provare ansia.
Proprio mai?
Neanche quando in campo, sulla fascia, mi trovavo contro Maldini o il francese Lizarazu ai Mondiali del 1998.
Il più forte contro di lei?
Maldini era complicato: magari lo saltavo, o ero convinto di averlo saltato, invece mi tornava sotto, prendeva la palla e ripartiva. Un grandissimo.
Ha giocato con tanti fuoriclasse.
(Altra lista infinita di nomi) Barbas, Pasculli, Francescoli, Herrera, Valdes, Oliveira, Balbo, Fonseca, Totti, Zamorano, Recoba, Ronaldo, Vieri, Baggio, Zanetti…
Ecco, Baggio.
Ci sentiamo spesso, è una persona molto discreta, particolare: all’Inter stavamo sempre insieme, anche in camera, e giocavamo a carte. Da lui ho imparato molto, non solo sul piano tecnico, ma proprio umano.
Era l’Inter di Moratti.
(Sorride) Un presidente-padre: il lunedì arrivava sistematicamente la sua telefonata, solo per domandarmi come stessi. Non ero abituato. La prima volta rimasi stupito, mi chiesi perché e percome, poi ho scoperto che trattava tutti allo stesso modo. Voleva sapere tutto, ci coccolava. Poi ogni volta che vincevamo arrivava negli spogliatoi e lo prendevamo in braccio. Lui è stato in grado di costruire una famiglia.
Lei quanto ci metteva ad assorbire le sconfitte?
Troppo, non le sopporto, mi chiudevo in casa un intero giorno e non parlavo con nessuno. Per molti aspetti questo approccio mi ha impedito una carriera più importante.
Ronaldo.
Dopo Maradona e Pelè è stato il giocatore più forte della storia: con lui ho vissuto la fantascienza, con giocate non spiegabili, a una velocità da cartone animato. Per non parlare in allenamento…
Cosa accadeva?
Impazzivamo tutti, compresi i duemila tifosi perennemente presenti sugli spalti: ogni giorno un casino, una festa, con cori e applausi. Cori e applausi pure da parte di noi giocatori. E lui si divertiva.
Dopo i gol di Ronaldo lei si inchinava davanti a lui e gli lustrava gli scarpini.
Il gesto dello sciuscià mi è venuto spontaneo, in qualche modo dovevo celebrare tanta meraviglia davanti a me.
Totti.
Da ragazzino era sicuramente forte, con quel qualcosa in più, ma non credevo che sarebbe arrivato ad altissimi livelli: è stato bravo a crescere anno dopo anno, forte della famiglia, delle origini umili, di Carlo Mazzone e di qualche compagno adulto che gli ha spiegato le basi. (Sorride) Per mio figlio piccolo lui è il mito: gioca con la speranza di imitarlo.
Torna il concetto di umiltà.
Quando hai fame sai da dove vieni e sai perché vuoi saziarti: è quello che manca oggi. Arrivano troppo presto; per questo il calcio è mediocre: un tempo il giocatore era pensante, non ossessionato dalla tattica.
E l’allenatore?
Era un uomo in grado di gestire lo spogliatoio, poi aveva tutto in mano, si prendeva la responsabilità per la scelta dei calciatori che, ripeto, ormai sono meno forti. (Sorride) Io magari mi trovavo davanti a Rijkaard, Van Basten e Gullit e se li superavo ecco Tassotti, Baresi, Costacurta e Maldini. Capito?
È stato uno shock smettere?
Per niente, però non è stato facile: giocavo nel Napoli, ma non ero più me stesso, non mi divertivo, anche per una serie di infortuni. Io che non mi ero mai fatto male.
E così?
Non dormivo, quasi come in un film mi affacciavo dalla finestra e guardavo il Vesuvio, fino a quando ho detto stop e ho piazzato gli ultimi scarpini in una scatola di cartone. Non li ho più tirati fuori.
Proprio mai?
Per me il calcio giocato è finito, ho ceduto solo a qualche evento benefico per l’Inter.
Sogna mai la partita?
Solo una volta in 25 anni: era così vera da svegliarmi con la convinzione di essere un calciatore, poi ho visto i miei tre bambini e sono tornato nei panni attuali.
Rivede le sue partite?
(Altra zanzara) Durante il lockdown, con i miei figli: mi guardavano stupiti, quasi con lo sguardo del “ma tu eri questo? Cosa ci siamo persi!”. Alla fine un po’ di nostalgia mi ha assalito.
“Il calciatore lo vedi dal coraggio, dall’altruismo e dalla fantasia” secondo De Gregori.
La canto da sempre, da quando ero ragazzino. Mi ci rivedevo. Poi mamma amava Bruno Conti e quando sono andato alla Roma non ci poteva credere (silenzio, gli esce un tono salentino in più). Per me Bruno era qualcosa di immenso insieme a Franco Causio.
Ha giocato con la numero 7, come Conti.
Anche qui, altra liturgia. Ora le magliette si lasciano davanti all’armadietto, invece a quel tempo Mazzone le consegnava di persona: prima ti fissava negli occhi e da quello sguardo non potevi sfuggire (pausa). La prima volta aggiunse: “Ricordati chi l’ha indossata, vedi di tenere alto il suo nome”.
Non male.
Che emozione fantastica. Ma Bruno Conti era inarrivabile.
Come mai il mondo del calcio è così chiuso?
Non lo so, però mi dispiace, perché certe storie, come quella di Bruno Conti, si tramandavano ai bambini, li aiutavano a innamorarsi del pallone; ultimamente i piccoli sono meno appassionati e nelle scuole calcio vedo situazioni oscene.
Quali?
Gli allenatori parlano da subito di tecnica funzionale. Siamo matti? Fino a una certa età i bambini e i ragazzini si devono solo divertire e sognare.
Problemi lontani, tanto ora è alle Maldive.
(Ride) Oh, mica sono in vacanza. Io qui lavoro.
Lei chi è?
Francesco Moriero, un ragazzo venuto dal Sud con una bellissima famiglia; (pausa) uno che deve tutto al calcio, non solo sul piano economico: ho imparato a vivere, la disciplina, a parlare, a ragionare. Per questo dico grazie.