la Repubblica, 28 novembre 2021
A Roma la prigione delle periferie
Una sera Alessia ha risposto al citofono, era un uomo che le gridava di consegnargli mille euro immediatamente o sarebbe salito con una spranga a picchiare lei e suo figlio. Alessia strillava, suo figlio ha preso un martello per difendersi e difendere la madre. Lei lo ha tenuto fermo, gli ha tolto il martello dalle mani e ha chiuso la porta a chiave.
L’uomo ha citofonato ancora: un giorno in più, le ha detto, ma un giorno solo. Poi è andato via e Alessia ha cominciato a fare le valigie, per l’ennesima volta.
Sei mesi fa i suoi genitori l’hanno cacciata di casa. Viveva con loro, a Corviale, periferia sud occidentale di Roma, con i suoi tre figli Denise di 11 anni, Christian di 14 e il più grande Daniel, di 16. Alessia è una donna di 35 anni, non ha la macchina e non ha una casa, lavora in un supermercato del Trullo, 11 ore al giorno per 1300 al mese. È gastronoma e ne va fiera.
Quando sua madre e suo padre l’hanno cacciata di casa, lei ha portato i suoi figli a casa della sorella e ha cominciato a dormire sulle sedie del pronto soccorso all’Ospedale San Camillo di Roma. Alternative non ce n’erano. Alessia ha un lavoro, certo, ma non ha risparmi. Ha provato a contattare i numeri degli annunci privati per trovare una casa in affitto ma senza risparmi non poteva pagare la caparra e senza caparra nessuno le dava una casa. Così la mattina Alessia bussava alla porta di un’amica per farsi la doccia, poi andava al lavoro, e la sera uscita dal supermercato saliva su un autobus fino all’androne dell’ospedale. È andata avanti così per una settimana, finché un conoscente le ha detto: «Se te serve casa, t’aiuto io. Damme dumila euro e te trovo un posto dove dormì».
Il posto dove dormire era una galleria del serpentone, il palazzone di 1260 appartamenti, sei lotti, ognuno di nove piani, novecento metri di cemento pensati e realizzati a Corviale negli anni Settanta dall’architetto Mario Fiorentino, che voleva farne un esempio realizzato dell’utopia socialista.
Otto piani di case e uno, il quarto di ogni lotto, pensato per ospitare i luoghi di aggregazione e i servizi, progetto sfumato rapidamente, perché dall’inizio degli anni ottanta, tutti gli spazi comuni sono stati occupati da inquilini abusivi ma paganti: 150, 300 anche 500 euro al mese per un bagno comune, una stanzetta e un cucinino. È per avere un posto in galleria al quarto piano che Alessia doveva pagare duemila euro al racket delle occupazioni. Erano loro a cercarla quella sera, al citofono.
La figlia più piccola l’anno prossimo inizierà le medie, il medio studia informatica all’istituto tecnico, il grande già lavora come elettricista. Ha sedici anni, la sua vita scolastica è già finita, d’altronde, dice Alessia, «non è che qui ci siano tante alternative».
«È così, a Roma il quartiere in cui nasci determina chi sei» a parlare è Salvatore Monni, professore associato presso il Dipartimento di Economia dell’Università degli Studi Roma Tre dove insegna Economia dello sviluppo. Insieme a Keti Lelo e Federico Tomassi ha scritto "Le sette Rome", un libro che racconta le disuguaglianze di Roma in 29 mappe.
È più di un saggio, è la geografia sociale di come la città sia cambiata, di quanto profondamente si siano cristallizzate le disuguaglianze che la attraversano. È un testo che spiega le vite come quella di Alessia e dei suoi figli, leggendo e raccontando i numeri, come quelli recentemente pubblicati dal Mef, relativi alle dichiarazioni dei redditi del 2019. Ai Parioli, zona benestante di Roma – scrivono i tre economisti e ricercatori - corrisponde un reddito dichiarato medio molto alto, 68 mila euro, mentre al quartiere di Tor Cervara e Tor Bella Monaca corrisponde un reddito medio di 18 mila euro. Significa che il rapporto tra la zona più ricca e quella più povera è di 1 a 3, 1 a 3.5.
Osservando i dati relativi all’istruzione il rapporto cresce fino a diventare di 1 a 11. Ai Parioli il 42 per cento della popolazione è laureato, a San Basilio solo il tre per cento. «Questo dimostra che le differenze di reddito non bastano a spiegare l’esistenza di quelle che nel libro abbiamo descritto le zone del disagio – dice Monni -. La vera emergenza è in termini di opportunità, cioè a Roma nascere in un quartiere o in un altro significa avere più o meno opportunità di essere istruito, di conseguenza di essere occupato, di conseguenza di essere esposto ad attività illecite. Significa che oggi, Roma è una città in cui il posto dove nasci e cresci può scrivere il tuo destino».
Nella zona delle Torri – la città del disagio, come la chiamano Monni, Lelo, e Tomassi – i numeri dei sussidi richiesti negli ultimi anni sono impressionanti: su una popolazione arriva di 70 mila persone, 32 mila hanno avuto una forma di aiuto dall’Inps, o reddito di cittadinanza, o reddito di emergenza. Significa che una persona su due ha avuto bisogno di aiuto per sopravvivere.
Che volti abbia la vulnerabilità economica a Roma, è una domanda a cui si risponde, per esempio, camminando lungo le vie della Magliana, un pomeriggio a settimana. La povertà ha il volto di Cinzia, capelli biondi, corti, glieli taglia suo figlio, che è barbiere, perché lei non ha più soldi per fare niente. Aveva poco prima, la pandemia ha svuotato il salvadanaio dei risparmi. E così Cinzia, una volta a settimana, aspetta il suo pacco di aiuti alimentari davanti alla sede dell’associazione "Vivere la Gioia".
«Mica è giusto – dice appoggiando una mano alla porta e una al deambulatore che la sostiene – sono invalida, non ho da mangiare e nessuno mi aiuta. Pensano ad aiutare le persone con i bonus per andare in vacanza. Ma qui c’è gente che muore di fame». Nella scatola di Cinzia c’è un pacco di pasta lunga da mezzo chilo, biscotti, riso, carne in scatola, un pelato grande, latte a lunga conservazione e tonno. Basta per lei e poi regala qualcosa a suo figlio. Ogni tanto a "Vivere la Gioia" c’è anche il fresco, verdura e frutta, dipende dalla generosità di chi dona, supermercati di zona o donatori privati. «L’anno scorso aiutavamo cento famiglie ogni 15 giorni, in dodici mesi sono più che raddoppiate al punto che oggi siamo arrivati quasi a 400 famiglie», Fosco Ieva è il presidente dell’Associazione, ha un foglio con la lista dei beneficiari, ma chiama tutti per nome. Di ognuno sa la storia e con ognuno sa fino a che punto può domandare, qual è la soglia dell’intimità e della confidenza che può concedersi.
Non tutti vogliono parlare, non tutti vogliono stare in fila in mezzo agli altri. C’è chi arriva alla fine della distribuzione, troppo mortificato all’idea che il vicino o il negoziante di quartiere possano vederlo mentre chiede aiuto per mangiare. Angela ha 44 anni, due figli e un nipote di un anno, prende il pacco alimentare da Fosco da marzo dello scorso anno. Lavorava in nero in un bar poi, quando è iniziato il lockdown, è rimasta senza lavoro e senza sussidi, finché una mattina ha aperto la dispensa e dentro era rimasto un pacco di pasta, una scatola di biscotti e il latte in polvere per il nipote.
Una conoscente le ha detto di farsi forza e andare a bussare alla porta di Fosco, "quello che aiuta tutti", ma «mi vergognavo tanto» dice, prima di ripetere una frase che pronunciano quasi tutte le persone che ricevono un aiuto alimentare: solo chi ruba si deve vergognare.
È un modo per farsi forza, allontanare il pudore, la mortificazione della richiesta d’aiuto più difficile: quella del cibo. Perché se c’è un tabù ancora da rompere è quello della povertà che porta alla fame. Angela oggi vive con 350 euro al mese, la piccola pensione di invalidità che le spetta. Se le chiedi come faccia dice solo: «m’arrangio con quello che capita, però non capita niente». Non è arrabbiata, né risentita, né triste. Ma saggia sì. «Se ti butti giù hai finito» poi sorride, abbraccia Fosco, prende la sua scatola e cammina verso casa.
La pandemia ha fatto precipitare milioni di famiglie come quella di Angela in uno stato di indigenza, milioni di bambini i cui genitori quando hanno chiuso le scuole e dunque le mense, durante i lockdown, hanno bussato alle porte della Caritas per chiedere da mangiare, perché a casa non c’erano soldi per garantire due pasti. O si pranzava, o si cenava. «La povertà oggi a Roma è una piovra strutturata, una piovra strutturale, pervasiva», don Benoni Ambarus è stato per anni parroco nella periferia nord di Roma, poi è diventato direttore della Caritas romana, oggi è vescovo ausiliario con la delega alla Carità.
«La fascia di popolazione che due anni fa il rapporto Caritas aveva definito come gli equilibristi della povertà, non c’è più. Si è rotta la corda, gli equilibristi sono crollati tutti» dice don Ambarus. A Roma l’anno scorso il comune ha ricevuto 160 mila richieste di buoni spesa, 40 mila sono stati gli aiuti costanti di associazioni laiche e Caritas. Significa che più di 200 mila abitanti hanno chiesto aiuto per mangiare, cioè circa il 7-8 per cento della popolazione residente.
E a soffrirne più di tutti sono gli anziani soli, e i ragazzi. «I ragazzi delle scuole nei quartieri benestanti chiamano i mezzi pubblici "spostapoveri", significa che le disuguaglianze sociali che attraversano Roma da anni stanno creando un classismo cittadino», non da ieri, dice don Ambarus, da anni. Distanze sociali antiche che la pandemia ha contribuito a portare alla luce, e amplificare e che, come sottolineano le mappe di Monni, Lelo e Tomassi, impattano su un tessuto sociale e produttivo già debole, che fanno di Roma un classico esempio di quanto la pandemia abbia agito divaricando ancora di più la forbice delle disuguaglianze.
«Con la fine del Covid non finirà la povertà - dice Monni - perché la povertà è una forbice che si allarga». Si allarga il divario tra le città nella città che non si parlano, non vogliono vedersi e si allontanano sempre di più. Una città in cui il posto dove vivi determina le opportunità che hai, quelle che puoi dare ai tuoi figli.
Alfredo è l’ultimo del pomeriggio a prendere il pacco alimentare da Fosco, a Vivere la Gioia, ha sessant’anni, lavorava come saldatore, e ora che è disoccupato anche lui prova ad arrangiarsi, perché «mancano sette anni alla pensione, e nel frattempo devo mangiare». Ha due figli, uno disoccupato, uno manovale a giornata. Si racconta con un pudore gentile, finché dice «Annamo avanti». Anche se avanti sembra un posto sempre più buio e inospitale. Avanti c’è la città delle disuguaglianze. In fila non c’è più nessuno, la sua era l’ultima scatola.
«Mica è giusto – dice andando via – perché lei mangia e io no? Non sono uguale a te, io?».