Com’è andata?
«Ho trovato una Los Angeles diversa da quella che conoscevo, resa impersonale dalla pandemia. Ho studiato con un coach i lunghi dialoghi in inglese per affiancare colleghi più potenti di me. È stato un bagno di umiltà: negli anni ti abitui ad avere una tua piccola autorità nel lavoro… ma era anche uno dei motivi per cui volevo farlo».
Interpreta una regista che prende le difese di Kessler/Steve Carell, l’anchorman molestatore.
Tra loro nasce una storia.
«Con Carell sul set c’era una bella chimica. Il suo personaggio è un reietto, vive una fase dolorosa della vita in cui fa i conti con i propri errori e con il modo in cui gli altri lo percepiscono, che è la punizione peggiore. Ma quando viene aggredito grauitamente da una ragazza insorgo: “Io e le donne prima di te ci siamo battute perché tu possa essere una stronza, non farmene pentire”. Non sono una femminista, lo sono state le nostre madri, ma rispetto a quella ragazza ho vissuto trent’anni di più».
Le affidano il pensiero degli showrunner sulla cancel culture?
«Sì, e non a caso. Lei è una regista consapevole, ma giudica inaccettabile cancellare una persona. Ciò sta succedendo è stato in parte necessario, nel cinema e negli altri ambienti. Bisogna difendere le donne, affrontare i problemi e legiferare. Ma non cedere a bigottismo e estremismo. Il protagonista di Euforia, il mio secondo film, era un omosessuale non sposato, senza figli, ricco, bugiardo, promiscuo. Qualche critico americano scrisse che avrebbe portato tensione nella comunità Lgbt. Era un personaggio che amavo, con le sue nuances e i suoi difetti, ma fuori dal politicamente corretto. Ma il pubblico lo ha capito benissimo».
Alla Festa di Roma si è ritrovata a cena con Quentin Tarantino, con cui girò “Four rooms”.
«Fu un un periodo bello, ero a Los Angeles per quel film, avevo girato con Sean Penn ( Lupo solitario, ndr). Ero entrata in un giro in cui volevo essere, non la Hollywood degli Studios, quella degli autori».
Nel film c’era anche Madonna.
«Abbiamo fatto amicizia subito, ci vedevamo spesso, era simpatica. Era molto affezionata al suo ex, Penn, di cui ero amica. Sul set Quentin era sempre presente, era il supervisor. Lui e la fidanzata dell’epoca avevano affittato casa mia a Los Angeles. A cena abbiamo parlato del provino che mi fece per Pulp Fiction: io volevo il ruolo di Uma, che lui le aveva giustamente già assegnato. Lui mi proponeva quello poi fatto meravigliosamente da Maria de Medeiros, la fidanzata di Bruce Willis con la vocina. Ma io non sapevo farla quella cosa lì».
A Napoli con Edoardo De Angelis gira “La vita segreta degli adulti”, per Netflix. È Zia Vittoria, figura odiata nella famiglia.
«Un personaggio forte, che non è proprio nel mio ventaglio, somaticamente e come modo di muoversi. Zia Vittoria sta venendo verso di me, io sto andando verso di lei. Magari Elena Ferrante la vedrà e dirà “ma cosa è successo?”. Cerco di farle onore».
Quando, da bimba, ha scoperto la vita segreta degli adulti?
«I miei si sono separati quando avevo cinque anni. Sono cresciuta in una famiglia sparpagliata, amavo individualmente le persone: mamma, papà, fratelli. Ma, viste le cose che son successe, la percezione degli adulti come di un mondo fragile, incostante, l’ho avuto film da bambina. E cercavo, come fanno i bambini, di difendere gli affetti, mi sentivo responsabile di far funzionare le cose».
È cresciuta in fretta?
«Non so, ma so che non volevo crescere. Per i miei dieci anni, papà mi aveva organizzato una festicciola, mi avevano vestita tutta di rosso. Io non volevo uscire dalla stanza, mio padre mi è dovuto venire a prendere con la forza, io urlavo “non voglio crescere”, ero disperata».
Ha visto “È stata la mano di Dio” di Sorrentino?
«Sì. Deve vincere l’Oscar punto e basta: ce lo dovete da’. Non perché Paolo è un amico, ma perché è un film che solo lui, solo un grande regista italiano avrebbe potuto fare».