Gestivano una gastronomia in via Garibaldi a Torino, “Sorelle Noero”, si chiamava. Vendevano soprattutto burro agli istituti scolastici, allora se ne consumava tantissimo. Mi hanno preso come garzone».
È stato il suo primo posto di lavoro?
«Non proprio. Con in tasca il diploma di perito elettronico sono stato assunto due volte. Dalla Sip a Cuneo e dalla Valeo di Mondovì. Sentivo i colleghi dire: dopo la pensione farò finalmente questo e quello e quell’altro ancora. Io non potevo aspettare di star lì fino alla pensione.
Così alla Sip mi sono fermato tre giorni e dopo una settimana mi sono dimesso dalla Valeo. Quando l’ho raccontato a mia madre, lei mi ha detto: sei libero di fare quello che vuoi, basta che non vai al bar».
Con le “Sorelle Noero” è cominciata dunque un’altra vita?
«Essì. Partivo dalla casa di Farigliano alle 4 e mezzo del mattino, dovevo essere a Torino prima delle 6.
Preparavo i formaggi, lavavo le olive, caricavo il furgone e consegnavo agli ambulanti che attendevano l’uscita degli operai del primo turno dalla Fiat di Mirafiori».
Quand’è che il burro è diventato
una sua sfida, una sorta di questione personale?
«Accadde che il fornitore storico della gastronomia improvvisamente smise di produrlo. Le mie cugine ne provarono altri ma nessuno raggiungeva una qualità soddisfacente. Allora dissi loro: lo faccio io. Sono andato dal vecchio produttore, ho comprato una zangola e gli ho chiesto di insegnarmi il mestiere. Lui mi risponde: va bene, ma io che cosa ci guadagno? Alla fine ci mettiamo d’accordo su 32 mila lire al mese, esattamente la cifra del mio stipendio.
Pazienza, avevo poco più di 20 anni e mi ero già messo per conto mio, in uno stanzino di Fossano dove lavoravo le panne durante la notte. Ero felice, mi sentivo un padrone. Mia madre diventò la mia prima aiutante».
Il suo burro, però, costava troppo caro per l’epoca.
«Vero, ho impiegato molto tempo a convincere i commercianti che la qualità avrebbe fatto la differenza prima o poi. Allora, eravamo alla fine degli anni Sessanta, da tre prezzi poteva dipendere la fortuna o la sfortuna di un negozio: quello del detersivo Dixan, quello dello stracchino e quello del burro. Gliela faccio breve.
Alla fine ci sono riuscito, era il 1971.
Avevo il mio burro da vendere. Dieci o dodici chili ogni settimana».
Che cosa l’ha spinto alla ricerca dei formaggi perduti della Bassa Langa?
«La curiosità soprattutto. Misi su una squadra di esperti della quale facevano parte i gastronomi Marco Guarnaschelli Gotti, Cesare Pillon, Giovanni Goria e Piero Sardo, l’inventore con Carlin Petrini di Slow Food. Ci riunivamo una volta al mese. Abbiamo impiegato sette anni per produrre le prime forme di Valcasotto che si può considerare l’antenato del Raschera».
La tecnologia vi ha aiutato?
«Guardi, abbiamo unito tradizione e innovazione. Ma le sensazioni personali, le intuizioni di un margaro o di un vecchio contadino sono state più utili di quanto credessi. Devo molto, per esempio, alle donne alle quali consegnavo il latte per sperimentare un formaggio e che ancora sentivano la temperatura di coagulazione, più o meno pari a quella del corpo umano, immergendovi il gomito».
Che cosa fa un buon formaggio?
«Il latte di animali felici, la provenienza del fieno che mangiano, la pulizia della stalla estiva e di quella invernale, l’erba degli alpeggi, la fioritura dei pascoli più alti, le assi di legno sulle quali i formaggi sono appoggiati per la stagionatura e che sono le nostre barrique. Tutti i marcatori che raccontano la storia di una touma o di una robiola. E poi i ricordi dei contadini ai quali ho chiesto di recuperare le vecchie lavorazioni come quella che ha ci ha portati alla sola , così detta in piemontese, o soera in occitano, un formaggio basso che veniva chiuso in un sacco di tela con un grande nodo e schiacciato da una losa, di quelle usate per costruire il tetto delle baite. È diventato il nostro marchio di fabbrica».
I suoi figli lavorano con lei?
«Carlo ha trentun anni e fa il venditore. Elisa ne ha trentasei ed è da poco tornata miracolosamente dall’estero dove ha studiato e lavorato. Francia, Inghilterra, Cina.
Papà, mi ha detto, posso venire a darti una mano? Per ora è nei reparti a fare esperienza, poi si vedrà».
A settantatré anni nessuna voglia di fermarsi?
«Avevo promesso a mia moglie che avrei smesso a cinquanta. Poi un grande dolore ha cambiato i miei piani. La morte, suicida, del nostro terzo figlio, Paolo. Gli mancava un mese ai diciott’anni. Lasciò scritto: servono troppi compromessi per vivere. Ecco, lavorare, lavorare e lavorare è stata l’unica terapia che mi ha dato conforto e energie per andare avanti. Ora resterò per altri quarant’anni…».
Che cos’è oggi il contadino in Langa?
«Il primo guardiano del territorio.
Deve essere remunerato il giusto per garantirgli una vita decorosa e la possibilità di fare investimenti. La ripresa economica dopo la pandemia passerà anche dalle campagne. L’Italia può stupire il mondo raccogliendo i tesori che ha sotto i piedi».
Qual è il prossimo formaggio che farà rinascere?
«Ho un sogno che forse la farà sorridere. Vorrei tornare indietro nel tempo di diciassette anni. Allora ero riuscito a fare un formaggio della transumanza, cioè quando gli animali venivano in Langa a svernare e a primavera tornavano nelle stalle dei contadini. Usai la tecnica della pasta rotta, la stessa del Castelmagno e lo chiamai Escarun, che in occitano sta per piccolo gregge. Non sono più riuscito a produrlo, probabilmente perché le vacche non compiono più la transumanza a piedi, non si stancano, non brucano erbe differenti lungo il percorso, dunque nulla di tutto è presente nel loro latte. Ma non mi arrendo. Voglio finire la mia carriera seduto in cucina con accanto l’Escarun e una bottiglia di Nebbiolo. La buca a le nen straca sa la sa nen ad vaca, ci ricordavano i nostri nonni». Che tradotto significa: per ultimo in tavola viene il formaggio.