Corriere della Sera, 28 novembre 2021
In morte di Almudena Grande
Ho dovuto scrivere articoli molto complicati per tutta la mia vita. Nessuno come questo». Iniziava così, il 10 ottobre scorso sul quotidiano «El País», il testo toccante e coraggioso con cui la scrittrice spagnola Almudena Grandes aveva reso pubblica la sua malattia. Un cancro, che le era stato diagnosticato poco più di un anno prima, «un cancro – scriveva – che è una malattia come un’altra, certamente un apprendistato, ma mai una maledizione, né una vergogna, né una punizione». Un cancro che ieri, in un sabato di novembre, nella Madrid in cui era nata il 7 maggio 1960, l’ha portata via.
«Perdiamo una delle scrittrici di riferimento del nostro tempo» è subito intervenuto su Twitter il premier Pedro Sánchez. «La letteratura spagnola e i progressisti sono in lutto», ha aggiunto il ministro della Cultura Miquel Iceta. «Almudena Grandes ha magistralmente ritratto la nostra storia recente e ha dato voce a chi non l’aveva mai avuta», ha ricordato l’Istituto Cervantes, diretto proprio dal marito della scrittrice, il poeta Luis García Montero che a lei ha dedicato più d’una tra le sue raccolte.
Passione civile e qualità stilistiche, una scrittura avvolgente, fluviale, in grado di fondere invenzione e fatti storici. Era tutto questo Almudena Grandes, autrice letteraria e insieme popolare, capace di intraprendere un percorso che dall’esordio erotico con Le età di Lulù, nel 1989, la portò ad attraversare il Novecento spagnolo. A divenire una voce al servizio della memoria, della rielaborazione degli anni bui del franchismo, narratrice dei «perdenti» per i quali, come sottolineava ieri «El País», ha saputo costruire «un’epica». «Mio nonno – raccontò la scrittrice stessa in un’intervista al “Corriere” nel 2016 – non è andato all’università, ma possedeva ricchezze che noi abbiamo perso: la cultura della povertà e la dignità di non essere abbienti». E ancora, del suo romanzo I baci sul pane, uscito l’anno prima, diceva: «Mi piacerebbe che venisse letto proprio come una rivendicazione di quella originaria cultura della povertà».
Laureata in Storia e geografia all’Università Complutense di Madrid, Grandes raggiunse la notorietà a 28 anni con Le età di Lulù, dal quale il regista Bigas Luna trasse l’omonimo film con Francesca Neri. «Ho pubblicato Almudena Grandes fin da quell’esordio, che sarebbe poi diventato un simbolo della Spagna postfranchista», testimonia Luigi Brioschi, presidente di Guanda, editore di tutti i titoli in italiano dell’autrice.
Poi arrivarono altri romanzi di successo, come Malena, un nome da tango (1994), Atlante di geografia umana (1998), Gli anni difficili (2002), Troppo amore (2004), fino a che, nel 2007 con Cuore di ghiaccio uscì quello che può considerarsi il suo primo romanzo politico, in cui raccontò la passione tra la figlia di esuli repubblicani e un giovane erede di un ricco uomo d’affari che ha fatto fortuna sotto il franchismo. «Una buona parte della sua opera narrativa – prosegue Brioschi – e forse la migliore, Almudena Grandes l’ha dedicata al confronto lucido e determinato con il passato, con la guerra mai finita. Al servizio di questa impresa ha messo la sua straordinaria ricchezza creativa, i suoi formidabili mezzi espressivi. Per tutti noi, aggiungo, è stata una grande amica».
Risale al 2010 il grandioso progetto degli «Episodi di una guerra interminabile»: una serie che prevede sei romanzi in cui narrare la Spagna dagli anni Quaranta agli anni Sessanta, unendo la grande storia e quella dei singoli individui, recuperando figure realmente esistite che erano state nascoste, oscurate. «Questa serie – disse Grandes in un’intervista a “El País” – mi ha riportato a ciò che ero. Mi ha mostrato, molti anni dopo la mia laurea, quanto fosse importante ciò che ho studiato. Probabilmente non avrei pensato gli “Episodi” se non fossi stata una storica».
La scrittrice ha completato cinque dei sei libri. Il primo, appunto nel 2010, fu Inés e l’allegria, al quale seguirono Il ragazzo che leggeva Verne(2012), I tre matrimoni di Manolita (2014), I pazienti del dottor García (2017), La figlia ideale (2020). Si arriva, con quest’ultimo, al periodo dal 1954 al 1956: una fase della Spagna che Almudena Grandes decide di narrare attraverso un punto di vista originale, laterale e forse per questo ancora più autentico: la vita negli ospedali psichiatrici durante il franchismo. E di farlo attraverso un caso di cronaca terribile e reale, quello di Aurora Rodríguez Carballeira: una donna ricca, colta, intelligente, che uccise l’unica figlia Hildegart, una bambina prodigio, quando raggiunse i diciotto anni. In un’intervista a «la Lettura» del 19 luglio 2020 l’autrice stessa spiegò il suo metodo: «Attraverso l’internamento di Donna Aurora, racconto la cappa asfissiante di silenzio e paura che era calata anche sulla Spagna. Narro una storia dentro un manicomio reale, in un Paese che era diventato esso stesso un manicomio».
In quell’intervista, che avvenne dopo la prima lunga fase dei lockdown dovuti alla pandemia, l’autrice raccontò di avere vissuto il confinamento a Madrid e che quell’esperienza le aveva ispirato un altro romanzo. Una trama che stava già scrivendo e che l’aveva spinta a prendersi una pausa dalla serie storica. «Il nuovo libro – aveva anticipato – è legato alla pandemia. Al centro ci sono una dittatura e la resistenza a questa dittatura, ma in un futuro prossimo. Ho già scritto un’ottantina di pagine». È il suo romanzo postumo, come ha confermato ieri l’editore spagnolo parlando di una «distopia». Proprio nell’articolo su «El País» in cui annunciava la malattia, la stessa autrice si scusava per eventuali future assenze e silenzi. Poi spiegava: «I miei lettori, che mi conoscono bene, sanno che sono molto importanti per me. Ogni volta che mi si chiede di loro, rispondo la stessa cosa, che sono la mia libertà, perché grazie a loro posso scrivere i libri che voglio, e non quelli che gli altri si aspettano. Sanno anche che la scrittura è la mia vita, e non lo è mai stata più, o più intensamente, di adesso. Durante questa fase ho scritto un romanzo che mi ha mantenuto intera e ha rappresentato uno scopo per il futuro che mi ha aiutato tanto quanto le cure. Adesso ho bisogno di restituire al libro tutto quello che mi ha dato, chiudermi dentro con lui, coccolarlo, finirlo, correggerlo».
Tenace fino all’ultimo, combattiva: «I miei personaggi preferiti sono i sopravvissuti e non ho intenzione di deludere me stessa», scriveva ancora. Un impegno e una forza che Almudena Grandes non espresse solo nei libri. Nel 2010 fu con Pedro Almodóvar tra chi difese il giudice Baltasar Garzón, accusato per avere aperto un’inchiesta sui crimini amnistiati dal franchismo. Da sempre progressista, «in momenti diversi ho votato sia i socialisti sia Podemos», ha detto a «la Lettura»: «Ci sono state fasi in cui non avrei scelto il Psoe, ma apprezzo Sánchez e mi piaceva Zapatero». Lottò anche per i migranti, le donne. Femminismo, disse ancora al nostro supplemento «oggi e sempre, è la lotta delle donne per l’uguaglianza. Abbiamo capito che quella giuridica non equivale a quella reale, per questo la battaglia deve continuare».