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 2021  novembre 28 Domenica calendario

Covid, perché l’Africa fa paura

Sembra avere qualcosa a che vedere con la paura del buio il panico generato in Occidente dalla nuova variante africana del coronavirus. Non che non ci siano motivi, anzi, per temere la B.1.1.529 ribattezzata Omicron e aggiunta dall’Oms tra i ceppi «preoccupanti». A iniziare dall’alto numero di mutazioni a livello della proteina Spike, quella su cui agiscono molti vaccini, i contagi aumentati del 258% in una settimana in Sudafrica, i primi casi in Europa. Ma Omicron fa paura anche perché proviene da un continente poco monitorato: i dati sono scarsi, spesso poco affidabili. Gli unici numeri certi sono quelli, preoccupanti, sui vaccini consegnati.
Soltanto 1 caso di Covid su 7 viene individuato in Africa, stima l’Organizzazione mondiale della sanità. Il problema è noto: la scarsa disponibilità di tamponi. In un recente report, l’Oms calcola che dall’inizio della pandemia i Paesi africani hanno riferito di 70 milioni di tamponi su una popolazione complessiva di 1,3 miliardi di persone. Gli Usa con un terzo degli abitanti hanno somministrato più di 550 milioni di test: 8 volte tanto. Per dare idea della scarsissima capacità diagnostica del continente indica due cifre Giovanni Putoto, responsabile programmazione e ricerca operativa del Cuamm, ong di Medici con l’Africa: «In Sud Sudan dall’inizio della pandemia sono stati somministrati 230mila test, contro i 400-500 mila al giorno dell’Italia».
Certo ci sono tante Afriche: quella in emergenza cronica anche per i conflitti, come Somalia e Congo, dove non esiste alcun tipo di tracciamento; e le parti dotate di una certa capacità di controllo, come Sudafrica, Senegal, Marocco, Egitto, Botswana e Kenya, con più casi rilevati.
A voler vedere il bicchiere mezzo pieno, la cosa positiva con Omicron è che si è sviluppato nell’Africa meridionale, vicino al Sudafrica, l’unico Paese africano con una buona capacità di sequenziare le varianti, operazione fondamentale per poter studiare tempestivamente le mutazioni invece di rincorrerle. «Quasi nessun Paese in Africa è in grado di farlo. Per sorvegliare le mutazioni occorrono tecnologie e preparazione, i Paesi ricchi devono tener conto di questo» osserva Putoto.
«Se questa variante avesse fatto un altro giro, magari dal Sud Sudan chissà quando sarebbe stata identificata. Quanto avrebbe potuto diffondersi senza essere individuata? — riflette Guglielmo Micucci, direttore generale di Amref — È l’incertezza a generare il panico, questo gioco delle varianti non sappiamo dove può portare. Dove sorgerà la prossima?».
Il grande argine sono i vaccini. Da mesi in molti ricordano, contro il «nazionalismo delle dosi», che nessun Paese si salva da solo, ma Omicron mostra ora cosa significa un’Africa non immunizzata per il futuro della pandemia: libertà di movimento per il virus e proliferare di mutazioni. Il continente ospita il 17% della popolazione mondiale, ma finora ha avuto accesso solo al 3% delle fiale globali. Attualmente al mondo si somministrano più terze dosi che prime: le nazioni ricche stanno erogando più richiami rispetto alle prime dosi somministrate dalle nazioni povere. Il risultato è preoccupante: solo 15 dei 54 Paesi africani hanno così raggiunto l’obiettivo di immunizzare almeno il 10% della popolazione entro settembre, valuta l’Oms. Questo soprattutto perché Covax, il programma nato per la distribuzione equa dei vaccini, non è stato in grado di reperire dosi al ritmo necessario.
Ma al basso tasso vaccinale concorre anche un certo scetticismo. Soprattutto in Sudafrica: se all’inizio dell’anno il programma era stato rallentato dalla scarsità di fiale, ora è stata Pretoria stessa a chiedere a Johnson & Johnson e Pfizer di ritardare le consegne. Troppa giacenza: 16,8 milioni di dosi stoccate, ha rivelato la Reuters. Così è l’esitazione ora a rallentare la campagna. Oggi il 35% dei sudafricani è completamente vaccinato, un valore più alto rispetto alla maggior parte delle altre nazioni africane, ma è soltanto la metà dell’obiettivo di fine anno fissato dal governo.
«In realtà c’è una buona dose di esitazione anche in molti altri Paesi africani», considera Roberto Zuccolini, portavoce della Comunità di Sant’Egidio, presente in 30 Paesi del continente. «Bisogna tener conto che in Africa sono arrivati diversi vaccini tra cui quelli cinesi che coprono soltanto al 40-50% e il russo Sputnik. Con Covax è arrivato AstraZeneca, un vaccino adatto all’Africa visto che non necessita della catena del freddo ma è stato vissuto da molti come uno scarto dell’Occidente dopo che in Europa diversi stati hanno iniziato a vietarlo. Infine è arrivato Pfizer. Ma bisogna occuparsi di sensibilizzare la popolazione sull’utilità dei vaccini perché la percentuale degli immunizzati è ancora bassissima. Noi stiamo cercando di farlo seguendo il metodo usato contro l’Aids: con il programma Dream, combattendo i pregiudizi».