Tuttolibri, 27 novembre 2021
Enzo Bianchi ha curato la nuova traduzione della Bibbia. Intervista
Bianchi Enzo. C’è scritto così, cognome nome senza nessun nascondimento, al cancello della graziosa casettina con un pezzo d’orto e i gerani alle finestre in cui vive il fondatore e ex priore della comunità di Bose. Non è una cella ma tutto è piccolo in questo piano terra sulla precollina torinese che ha trovato in affitto da quando è in «esilio», come ha definito lui in un tweet settembrino questa nuova fase della vita. L’ingresso dove sta appeso l’abito da monaco è il centro della casa, da lì si va in cucina, nella saletta con il crocifisso alla parete e nello studiolo con la scrivania, una pianta di basilico e semplici librerie su cui vegliano tre civette in legno, «simbolo della vita monastica» spiega. Ma lo spazio di cui va più fiero è l’orto, ordinatissimo, dove ci porta a vedere i finocchi e le insalate, «specialmente questa fantastica del Canadà che resiste sotto la neve e fa rosette buonissime». E siccome la verdura cresce generosa e per sé solo è troppa, lascia le chiavi a una coppia di vicini gentili perché si servano; «A volte trovo un biglietto con su scritto "Abbiamo rubato due finocchi" e io rispondo "Santo furto!"».
L’idillio georgico però non porti fuori strada, perché l’impresa che ha appena concluso ha più i tratti dell’epica. A giorni esce da Einaudi un’opera che sarà un evento culturale, una nuova traduzione della Bibbia progettata e diretta da lui e realizzata con dodici specialisti. Un lavoro immenso, iniziato molto tempo fa.
Dieci anni di lavoro e quasi 4mila pagine. Contento?
«Direi proprio di sì perché l’impresa all’inizio sembrava quasi impossibile, tanto è vero che non ci sono stati tentativi in questi ultimi decenni in Italia; e poi la traduzione era stata assegnata a specialisti rispetto ai testi, di conseguenza un buon numero di persone che bisognava coordinare e con cui muoversi in squadra in maniera estremamente sinfonica. E questo è avvenuto».
Una Bibbia Einaudi e nella collana I Millenni, quella di Voltaire. È stata annunciata come la prima Bibbia "non confessionale", per i cristiani di tutte le confessioni ma anche per il lettore laico. In che senso, visto che resta un impasto di umano e divino e che per i cristiani c’è di mezzo anche lo Spirito santo?
«È una Bibbia i cui esegeti e traduttori sono certamente credenti ma la traduzione non è passata a nessuna censura ecclesiastica, quindi ha cercato di essere fedele alle regole esegetiche e ermeneutiche degli ultimi tempi e alle scoperte filologiche sui testi originali; dove le note non hanno nessun tributo alla dottrina di una chiesa - cattolica ortodossa o riformata - ma obbediscono al testo non alla fede del traduttore; la possono leggere dunque i laici non credenti sapendo di avere un testo che non ha gli interessi dottrinali di una chiesa, e nello stesso tempo i credenti, che attraverso la loro lettura della fede e con l’aiuto dello Spirito Santo possono ritrovarvi quel contenuto che è la parola di Dio».
Quando si decide di metter mano a una nuova traduzione della Bibbia, occorre nulla osta? I problemi non sono solo linguistico-letterari ma ermeneutici.
«Non occorre perché si è andati ai testi originali così come la critica letteraria ce li ha restituiti nelle ultime edizioni, e nello scegliere i libri non ci siamo fermati al canone di una chiesa ma abbiamo messo in traduzione tutti quelli che in 20 secoli nelle differenti chiese sono stati ritenuti testi in cui era contenuta la rivelazione».
Lei curatore più altri specialisti, 12 come gli apostoli. È un caso?
«È proprio un caso, li abbiamo individuati per le competenze; ci siamo ritrovati più volte per discutere come procedere secondo criteri comuni perché fosse una traduzione di diversi traduttori sui singoli libri, ma una traduzione sinfonica».
Essendo un’opera con premesse anche politicamente corrette, le faranno notare che fra i traduttori c’è solo una donna…
«È vero, ma altre esegete cui avevamo chiesto non erano disponibili perché ormai impegnate alla traduzione del Nuovo Testamento presso un altro editore».
A ciascuno il suo Libro. Lei si è riservato il Cantico dei Cantici. Il preferito?
«Avrei amato anche i Salmi che ho tradotto più volte, però un confratello ne aveva fatto un commento e mi sembrava giusto lasciare il posto a lui per il Salterio».
Entriamo nel merito di qualche "discordanza" dalla versione Cei. La prima è nella datazione, non si parla di "avanti/dopo Cristo" ma di era volgare.
«C’è l’Antico Testamento che è prima di Cristo e i libri sono degli ebrei, i quali non accettano Gesù Cristo; quindi l’altra forma di datazione ci è sembrata la più consona».
Un’altra differenza macroscopica è nell’indice: Torah al posto di Pentateuco, e poi "Profeti anteriori e posteriori"…
«Sì abbiamo fatto la scelta di non andare a quella ripartizione che nelle bibbie c’è e dipende soprattutto dalla traduzione greca dei LXX poi ripetuta dalla Vulgata, abbiamo voluto obbedire a quello che è il canone ebraico innanzitutto per l’Antico Testamento e poi al canone del Nuovo Testamento che è cristiano, in modo che ci fosse profondo rispetto di quelle che sono le due parti, che hanno una loro autonomia e non possono essere confuse quando invece è la fede cristiana che le unisce».
La traduzione: il primo versetto della Genesi: "In principio Dio creò..." diventa "Quando Dio cominciò a creare…", da proposizione principale a temporale; Qohelet: il celebre "vanità delle vanità tutto è vanità" diventa "Assoluto soffio, tutto è soffio". Nel prologo di Giovanni "In principio era il Verbo" si lascia "Logos". Quando le traduzioni sono diventate "un classico" perché cambiarle?
«C’era la volontà di restare il più possibile fedeli all’ebraico nell’Antico Testamento; "vanità delle vanità" è diventata proprio un’altra cosa dall’ebraico hevel hevelim che è soffio leggero, dunque l’inconsistenza delle inconsistenze; le maniere di tradurre sono tante ma noi abbiamo voluto dare il più possibile il senso che ci proviene dal testo originale e non dalle traduzioni, anche se si sono imposte».
I titoli dei paragrafi: sono, diciamo così, discorsivi…
«I titoli sovente diventano una chiave ermeneutica che porta il lettore a una lettura in un determinato senso, invece così si evoca il passaggio ma non si fornisce un senso anticipato del brano».
La traduzione sua del Cantico dei Cantici: la differenze maggiori riguardano le immagini erotiche. Le traduzioni correnti usano termini generici, lei nomina glutei, pube, inguine…
«Sì, traduco il testo ebraico nella sua carnalità perché oggi siamo in grado di leggere il Cantico dei Cantici come un inno all’amore umano nel quale la tradizione ha visto anche una grande metafora dell’amore di Dio, però il testo di per sé è un cantico di amore erotico di un giovane e una giovane».
La parte iconografica è importante, sia quella propriamente artistica sia quella "di servizio".
«Mappe e cronologia le abbiamo composte noi con molta cura perché aiutassero il lettore, per le illustrazioni ci siamo affidati a François Boespflug, uno dei più grandi esperti dell’arte religiosa cristiana che ci siano attualmente al mondo».
Giobbe: il traduttore Borgonovo - che è arciprete del Duomo di Milano - spiega che correrà il rischio di osare una versione poetica in endecasillabi. L’opera ha anche un valore letterario?
«Questo abbiamo cercato, che ci fosse qualità letteraria all’interno della traduzione, poi c’è stata proprio una revisione totale a tappeto in modo che tutto armonizzasse».
Ogni volta che la Bibbia viene toccata e rivista non diventa sempre un po’ meno Parola di Dio è un po’ più parola dell’uomo del tempo che la traduce?
«La Bibbia ha questo statuto di essere insieme parola di Dio e parola umana, anzi è una parola umanissima che contiene la parola di Dio, non è direttamente parola di Dio, questo lo dice una posizione fondamentalista estranea alla grande tradizione cattolica, secondo cui invece la Scrittura contiene la parola di Dio e può diventare parola di Dio quando la si legge con l’aiuto dello Spirito Santo. I fondamentalisti fanno: Scrittura=Dio, con tutti i guai che ne vengon fuori. Non dimentichiamo quel che dice Paolo: la lettera uccide, è lo spirito che vivifica».
Come approcciarla, con il "tolle lege" agostiniano?
«Non c’è nulla di più sbagliato del tolle lege, perché se un lettore si imbatte nel Levitico piglia la Bibbia, la mette di nuovo nello scaffale e non la leggerà mai più. Girolamo che era un esegeta saggio e intelligente diceva che c’è una gradualità nel leggere i libri e con molto humour precisava "i libri difficili dopo i 25 anni e il Cantico dei cantici dopo i 60" ».
Quindi da cosa iniziare?
«Per l’Antico testamento i primi 11 capitoli della Genesi, poi i primi 24 dell’Esodo, poi Profeti come Isaia e Geremia; per il Nuovo Testamento sarà bene iniziare da un vangelo come Marco, passare per una lettera di Paolo ma che sia come la prima Corinti e lasciando per la fine Giovanni, il quarto Vangelo e l’Apocalisse che sono molto difficili».
Questa Bibbia raggiungerà nuovi lettori. Si può dire che ci sarà anche un esito "apostolico" pure se non era nelle intenzioni?
«L’importante è che la Bibbia sia letta e conosciuta. Per tre ragioni: perché è un codice di umanità; perché, volenti o nolenti, siamo in una cultura che è cristiana; perché è una biblioteca, più di 70 libri scritti nell’arco di 1000 anni, e ci dà la possibilità di arricchirci di visioni immagini interpretazioni, è veramente qualcosa che non può mancare in un vero umanesimo. Se poi questo provoca un incontro con la fede ebraica o con la fede cristiana, a me non compete. Io credo che il nostro servizio sia soprattutto su quei tre punti che le ho detto».
Lei ama aggiungere, al motto benedettino, "ora, LEGE et labora"...
«La cosa più importante che un monaco fa nella giornata è la lectio divina, che è poi essenzialmente una lettura della Bibbia. Se manca la lettura manca anche il pensare e il pregare senza il pensare rischia di diventare pettegolezzo davanti a Dio».
Su Twitter ha invitato a venire a pranzo da lei, in mano una teglia di peperoncini ripieni. Qualcuno ha accettato l’invito?
«Ho avuto quasi 3000 richieste e quel tweet 200.000 visioni… »
Il suo Monferrato, ci tornerà?
«Ci sono andato da poco per cercare una tomba, perché voglio andare nella terra e finalmente ho trovato un quadrato e finirò così, a 20 metri da mia mamma e mio papà, nel mio paese».
Anche Papa Francesco ha origini monferrine, parlavate in piemontese? Nella lettera che le ha scritto, pubblicata dal sito silerenonpossum, si definisce suo "figlio spirituale"…
«Lui mi resta amico, mi vuol bene e me lo manda a dire da ogni vescovo. È un uomo evangelico».