ItaliaOggi, 27 novembre 2021
Orsi & tori
Talvolta ritornano. È il caso di Tim (alias Telecom Italia, alias Sip), tornata sul tavolo virtuale del presidente del consiglio Mario Draghi. La prima volta fu dopo che la Sip, nel 1994, aveva cambiato nome in Telecom per la privatizzazione, che Draghi per vari aspetti gestì come direttore generale del Tesoro. È sicuro e regolare che un direttore generale di ministero esegue le indicazioni del ministro e del governo, anche se Draghi quando il ministro Guido Carli lo propose per l’incarico, ottenne di raggiungere il livello più alto della burocrazia statale, eguagliando come rango il Ragioniere generale dello stato (allora Andrea Monorchio), che era ed è il più alto in grado nella struttura statale.
Un po’ tutte le privatizzazioni di quell’epoca furono mal riuscite, ma certo quella di Sip-Telecom è stata un disastro nazionale. Il comitato delle privatizzazioni seguì la tecnica
della Francia del cosiddetto nocciolo duro, cioè di un gruppo di azionisti che garantissero il controllo. Proprio di quella Francia con cui ora viene firmato il Trattato del Quirinale, con cui i due paesi si impegnano ad «alleanze strutturali», nello stesso giorno in cui si tiene un consiglio d’amministrazione decisivo di Tim, in cui la francese Vivendi ha la quota maggiore (24%) e al momento si oppone all’Opa di Kkr.
Sembra quasi una convergenza stellare, che inevitabilmente richiama quella sciagurata privatizzazione del 1997. In francese si chiamava noyau dur, appunto in italiano nocciolo duro. Il fatto è che quello organizzato dal comitato privatizzazioni fu un nocciolino tutt’affatto duro. Telecom, come ha ricordato in questi giorni l’ultimo amministratore di Sip, Vito Gamberale, era una delle tre maggiori telco d’Europa; era la società che per prima aveva elaborato un piano per la posa di fibra in Italia; aveva 24 milioni di abbonati; era presente in molti altri paesi e a Torino aveva un Centro ricerche di altissimo livello, con uomini come l’ingegner Mauro Sentinelli che inventò le sim prepagate, ricaricabili…
Nonostante tutto ciò, sull’onda delle necessarie privatizzazioni anche in chiave di entrata della lira nell’euro, il maggior azionista del nocciolino fu individuato nel gruppo Agnelli, che acquistò nientemeno che lo 0,7%. Con la presidenza di un grande giurista, Guido Rossi, la privatizzazione del 35,26% posseduto dall’Iri generò un ricavo di 26 mila miliardi di lire, tradotto in euro 13,5 miliardi. Giovedì 25, prima del consiglio, la capitalizzazione del 100% di Telecom Italia era 9,9 miliardi di euro. Basterebbe questa cifra a capire il disastro che la privatizzazione ha generato.
Infatti, il nocciolino sollecitò ben presto l’appetito di vari pretendenti. Il più lesto fu Roberto Colaninno, allora amministratore delegato di Olivetti, di cui aveva preso il controllo insieme al bresciano Emilio Gnutti, a lanciare insieme ad altri «capitani coraggiosi», secondo la definizione ridicola di Massimo D’Alema, l’Opa su Telecom portata a termine con successo nel 1999. Fu anche il trionfo di Lehman prima del fallimento, avendo svolto un ruolo primario nell’Opa. A fianco di Colaninno e Grutti c’erano infatti Ruggero Magnoni e Vittorio Pignatti Morano, consiglieri della banca americana che nel 2008 poi fallirà innescando una delle più grave crisi dell’economia mondiale. Nel 2001, Marco Tronchetti Provera, ceo di Pirelli, insieme ai Benetton acquistarono dai «capitani coraggiosi» il 22% e quindi il controllo Telecom. Ma dopo aver concepito una strategia che sarebbe stata vincente, e cioè l’unione fra la telco e la televisione di Rupert Murdoch, verso il quale ci fu l’opposizione del governo Berlusconi, anche Tronchetti fu costretto a passare la mano, per non perdere anche la Pirelli.
L’ultima operazione strategica italiana su Telecom, se così si può chiamare, fu l’intervento per l’acquisto di Telecom da parte di Cesare Geronzi con Mediobanca e Giovanni Bazoli con Intesa Sanpaolo, che costituirono un sindacato con la spagnola Telefonica. Anche questo tentativo di tenere saldamente italiana Telecom, come si sa, si è concluso negativamente con l’ingresso nella telco italiana da parte di Vivendi.
Appare più che giustificato il disappunto e la frase lapidaria di Gamberale: «Telecom è stata la società più profanata delle grandi aziende italiane».
Conta relativamente poco quello che sarà l’esito finale dell’Opa Kkr, la lettera onesta del Ceo, Luigi Gubitosi, che ha sollecitato, rimettendo i poteri, a rispettare i diritti degli azionisti a conoscere il giudizio del consiglio d’amministrazione sull’offerta americana, precisando che essa è rivolta ai soci, non ai consiglieri. Ciò che conta è tenere presente quali possono diventare le reazioni distruttive a catena su una società che era un pilastro dell’Italia, per l’errore fondamentale della privatizzazione realizzata senza il buon senso di conservare il controllo da parte dell’Italia, come invece hanno fatto sia la Germania con Deutsche Telecom che la Francia con France Telecom.
Il primo del governo a parlane, avendone la competenza, è stato il ministro della transizione digitale, Vittorio Colao, ex-capo mondiale di Vodafone, sia pure con una premessa: «Non si commentano operazioni e situazioni di mercato, ma ovviamente siamo molto interessati a preservare la sicurezza del paese e il buon sviluppo delle infrastrutture. Il governo segue la vicenda, ma la questione dell’autonomia strategica del paese e dell’Europa va ben oltre operazioni specifiche».
Ma in campo c’è un altro protagonista che ugualmente in prima linea con l’allora direttore generale del Tesoro, Draghi. È uno dei Draghi boy, quel Dario Scannapieco che tanto bene ha fatto come vicepresidente di Banca europea investimenti (Bei) e che ora è a capo di CdP, cioè del secondo azionista di Telecom Italia con quasi il 10%. Scannapieco ha presentato giovedì 25 il piano strategico di Cdp, ma, si potrebbe dire ovviamente, non ha detto una parola sull’Opa.
Certo che anche il ruolo di Scannapieco nella vicenda è un’altra congiunzione stellare, avendo egli collaborato con Draghi alla privatizzazione del 1997. Appunto, anche per lui talvolta ci sono ritorni. Appare quindi legittimo domandarsi se, sia pure da posizioni ben diverse, questa volta Draghi e Scannapieco sapranno fare meglio di 24 anni fa. Nessun paese al mondo, anche per la sicurezza, come dice Colao, è senza una posizione strategica e un ruolo attivo nelle telecomunicazioni, nella rete principale in fibra e in tutti i servizi a esso connessi. E Draghi, in effetti, ha battuto più di un colpo: «Siamo ancora ai primissimi passi, in cui molte cose devono essere valutate, quello che il governo ha fatto e che ha detto è che ci sono tre priorità nell’ analizzare questa offerta e il futuro di Tim: la protezione dell’occupazione, la protezione della tecnologia di grandissimo valore all’interno di Telecom sotto varie società, e, la terza, la protezione della rete. Per lo straordinario valore che Telecom riveste, il governo, per valutare l’offerta, ha creato un comitato per la gestione delle telecomunicazione». Quindi del dossier questa volta si occupa Palazzo Chigi. Spesso l’esperienza serve, e anche essere il capo e non l’esecutore. Vediamo se alla fine Draghi recupererà all’Italia che cosa l’Italia perse con la sciagurata privatizzazione del nocciolino molle molle.
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Non si era mai visto che un necrologio occupasse una pagina intera di quotidiano. Ma Ennio Doris ha meritato questo e altro e lo conferma il fatto che la pagina, dopo quella del suo gruppo, sia stata del gruppo dove egli si è formato, anche se allora si chiamava Ras e ora si chiama Allianz, ma comunque concorrente diretto di Mediolanum.
Bastano due sue frasi, due suoi slogan, per capire quanto era grande e quanto quelle due frasi continueranno a incidere per anni nel risparmio gestito e nel mondo bancario. Me le ripeté anche quando, poche settimane fa, mi ha dato il privilegio della sua ultima intervista, una sorta di testamento prima umano e poi tecnico-operativo, pubblicato in Orsi &Tori del 25 settembre, ripubblicata in parte su ItaliaOggi di giovedì 25 novembre.
I due slogan valgono da soli due libri di testo universitari. Primo concetto: che cosa deve essere un consulente finanziario? Il medico del risparmio, perché deve curare il risparmio dei clienti come un medico cura i suoi pazienti, con la stessa deontologia di fare tutto il possibile perché il paziente stia bene. Due parole da non dimenticare mai da parte di chi tratta il denaro, o meglio i risparmi di altri. Secondo concetto, fulminante, specialmente si si pensa che è di vari anni fa: le filiali delle banche sono come sono state le cabine telefoniche nelle strade. Aveva intuito prima di tutti la rivoluzione di internet e del digitale nel mondo bancario. E cominciando da zero non aveva mai aperto una filiale: il medico del risparmio va a casa del cliente, a curare i di lui risparmi.
Ci sono anche altre frasi che da sole costituiscono i piloni di una costruzione straordinaria qual è Banca Mediolanum. Per esempio, ritenere, come ritiene un altro grande vecchio che gestisce i soldi degli altri al pari dei suoi, il mitico Warren Buffett: i migliori affari si fanno quando tutto sembra crollare. Ed Ennio non ha perso un’occasione una ogni volta che il mercato è crollato, come ai tempi della crisi provocata dal fallimento Lehmann.
Per un Ragioniere di Tombolo, il paesotto veneto che, come amava ricordare lui stesso, è stato prima di tutto un mercato delle vacche o dei bovini, è probabilmente naturale avere i piedi ben piantati in terra come li aveva lui. Ma per lui è valso anche il detto: scarpe grosse e cervello fino. E cuore grande, grandissimo, come il suo sorriso, sempre presente sul suo volto.
Conoscerlo a fondo è stato un grande privilegio, ma il solco che ha tracciato è visibile per tutti.
Le ultime parole, fuori dall’intervista, sono state per il figlio Massimo: «Non sai che quando Massimo lasciò, dopo averla fondata, la Banca Mediolanum in Spagna, la Banca centrale spagnola protestò, voleva che rimanesse», mi disse. E Massimo, insieme alla sorella Sara, rende possibile il testo della pagina intera del necrologio firmato Banca Mediolanum: «Ci sarà. Anche domani… “C’è anche domani” era il suo motto.