il Fatto Quotidiano, 27 novembre 2021
Intervista a Lilli Gruber
Martha e Lilli, due donne e un secolo in mezzo. Eppure hanno un sacco di cose in comune, per esempio due mamme fuori dal comune che hanno messo nella loro educazione il seme dell’autonomia. Ma anche il mestiere di giornalista e un grande amore, nato nel luogo dove la morte splende: il fronte di una guerra. Si sono incontrate la prima volta grazie a un libro – Per chi suona la campana di Ernest Hemingway – dedicato “a Martha Gellhorn”. Così Lilli scopre la più grande inviata di guerra del Novecento, terza moglie di Hemingway, l’unica capace di tenergli testa. Allora si sono incontrate di nuovo, in un altro libro che s’intitola La guerra dentro. Martha Gellhorn e il dovere della verità.
Lilli, Martha aveva bisogno di “andare a vedere” le cose per raccontarle. Giovanissima si guadagna uno scalcagnato passaggio verso l’Europa in cambio di un articolo su una nave a vapore: era il 1929. Oggi il giornalismo ha meno ansia di “andare a vedere” e forse più di farsi vedere?
Sono passati cent’anni e sono arrivati i social, oggi farsi vedere è uno stile di vita. Di persone che provano un interesse smodato per il proprio ombelico ce ne sono parecchie, non solo nel giornalismo. Però, per i giornalisti, è grave: se ti convinci di essere la notizia finisce che ti dimentichi di dare le notizie. Dobbiamo coltivare rigore e curiosità, due qualità fondamentali del nostro lavoro. Ma attenzione: i buoni giornalisti non li porta Babbo Natale: vanno formati e valorizzati. Dopo quel primo viaggio rocambolesco da esordiente, Martha Gellhorn ne fece altri, da professionista, tra cui la guerra in Finlandia e la sua bellissima “luna di miele” con Hemingway in Cina. Furono ben organizzati, spesati e retribuiti grazie a una grande testata giornalistica, Collier’s. Ai giovani inviati oggi magari non manca la voglia di andare a vedere, ma le risorse per farlo. Troppo facile dare la colpa ai singoli, o al pubblico, per le distorsioni del sistema. Più impegnativo correggerle, ma bisogna. Perlomeno se vogliamo salvare il giornalismo di qualità e con esso le nostre democrazie.
Martha è stata anche collega di Hemingway, entrambi hanno raccontato lo sbarco n Normandia. In che modo erano diversi?
Opposti: lui si metteva al centro di ogni storia, lei metteva al centro le storie. Lui inventava dialoghi e situazioni per rendere più avvincenti le sue narrazioni, lei sapeva raccontare la realtà dei fatti rendendola più avvincente di qualsiasi narrazione. Guardiamo i loro due reportage dalla Normandia. Quello di Hemingway è una specie di polpettone di guerra con lui come protagonista e uomo chiave: sembra che su una nave carica di soldati fosse l’unico a saper leggere una mappa militare. Quello di Gellhorn è un resoconto senza fronzoli, ricco di dettagli realistici e testimonianze di prima mano, da cui però emergono immagini ed emozioni così vivide che è come guardare un film, anzi è come esserci dentro, al film. Dettaglio non trascurabile: Hemingway e la sua barca fecero dietrofront sotto il fuoco nemico e in Normandia lui non sbarcò mai. Gellhorn, invece, scese dalla scialuppa nell’acqua alta e quella spiaggia martoriata la calpestò davvero.
La Gellhorn è stata la prima a raccontare la guerra dal punto di vista di chi non aveva voce: le donne, i bambini, la popolazione civile. È una questione di sguardo?
Diamo atto a Hemingway che fu un suo suggerimento. Quando la giovane Gellhorn arriva a Madrid nel 1937 non è una giornalista. Vuole diventarlo, vuole “stare con i ragazzi”, ovvero i grandi intellettuali che raccontavano la Guerra civile spagnola: oltre a Hemingway c’erano Dos Passos, Robert Capa e Gerda Taro e altri. È un capitolo romantico della sua vita – e del libro – ma prova anche molta incertezza. Si chiede: cosa ci faccio qui? Non è certo andata in Spagna solo per dividere il letto con Ernest, che peraltro a letto non è un granché. Così le chiede consiglio e lui le dice: racconta quello che sai. Sottinteso: tu che sei “solo” una donna, e di strategie militari non capirai mai nulla, scrivi delle vittime civili. Martha gli dà retta, e trova la sua cifra. Superando il maestro. Non credo che questa cifra avesse a che fare con il suo essere donna, tanto è vero che poi diventerà brava quanto Hemingway anche a raccontare i movimenti di truppe e a spiegare i risvolti geopolitici. Forse però un uomo non avrebbe avuto l’umiltà di accogliere il suggerimento e il coraggio di mettersi in gioco. Anche oggi, in parte la forza femminile credo abbia a che fare con il mettersi in discussione, cercare la propria strada e la propria dimensione senza dover per forza fare a chi ce l’ha più lungo.
Per gli inviati di guerra la strada è sempre stata in salita. Più per le donne: è ancora così?
Ai tempi di Martha alle donne era vietato andare al fronte: più in salita di così! Lei si imbarca clandestinamente, sulla nave ospedale per la Normandia, e al ritorno rischia di non riuscire più a lavorare, finisce confinata in una caserma. La mia esperienza non è stata così estrema e anzi la Guerra del Golfo è stata una delle prime in cui si è vista la presenza di un nutrito drappello di inviate. Oggi nessuno si stupisce se è un volto femminile a raccontare i fronti caldi del pianeta. Ma quanti direttori di grandi quotidiani e reti televisive sono donne? Quanti ceo di grandi gruppi editoriali? Questo è il vero campo di battaglia: la presenza delle donne ai vertici. E finché non saremo 50-50, non dobbiamo deporre le armi.
Da una trincea all’altra: lei conduce Otto e mezzo da 14 anni. Il confronto più difficile da gestire?
In studio nessuna difficoltà. Nella preparazione delle puntate trovo faticosa la pretesa, da parte di certi personaggi – non solo politici – di decidere il contesto dell’intervista, per esempio cercando di imporre chi debbano essere gli altri ospiti. Pretesa che a Otto e mezzo viene invariabilmente rintuzzata, a volte a prezzo di discussioni sfinenti e inutili: la mia è una trasmissione giornalistica, non un menu à la carte.
Perché Mario Draghi non va in tv e non rilascia interviste?
Less is more, dicono gli inglesi: probabilmente ritiene di essere più efficace così. Da giornalista, però, non solo mi piacerebbe poterlo intervistare, ma credo che il confronto con la stampa libera sia importante per un capo di governo: non bastano le rare conferenze stampa. Diciamo che accettiamo la temporanea indisponibilità del nostro premier come uno dei tanti sacrifici imposti dalla pandemia.
Ultima: come ha convinto suo marito Jacques, che sembra un tipo riservato, a farsi intervistare in un capitolo del libro?
Come Sheherazade: creando l’atmosfera di una serata di vino e storie. Solo che invece di raccontare io le storie, le ho fatte raccontare a lui. È stato per 30 anni corrispondente di guerra dell’Afp, in Ciad, in Iran, a Beirut, Baghdad (dove ci siamo conosciuti) e Sarajevo. Sono venute fuori avventure degne di un romanzo di Ian Fleming: è il capitolo più lungo del libro. Alcune vicende non le conoscevo e dopo vent’anni di matrimonio è un grande regalo che tuo marito riesca ancora a sorprenderti. A giudicare dai messaggi delle lettrici e dei lettori, non ha sorpreso solo me.