Quando ha capito che suo padre non era come tutti gli altri?
«I miei genitori (Ralph e Ricky Lauren sono sposati da 57 anni, ndr ) sono persone molto “normali”: si cenava assieme, mia madre ci preparava la colazione la mattina, giocavamo a ping pong dopo aver fatto i compiti, nulla di che. Però quando uscivamo e andavamo al ristorante, la gente veniva a stringere la mano a mio padre, o chiedeva di farsi una foto con lui: in quei momenti mio fratello Andrew, mia sorella Dylan e io lo guardavamo e gli chiedevamo sospettosi: “Scusa, ma perché ti vogliono conoscere?”».
La sua prima sfilata?
«A cinque anni. Mi avevano regalato una Polaroid, e volevo usarla per fotografare le modelle. Loro se ne erano accorte, e invece di fermarsi davanti agli obiettivi si mettevano in posa per me: lo show s’era fermato per darmi il tempo di scattare. Io sono lì che armeggio con la mia macchina quando noto che c’è uno strano silenzio: alzo gli occhi e vedo che tutti mi fissano, in attesa. Anche se ero solo un bambino, ho intuito che forse quella gente era lì per noi».
Il brand è unito a doppio filo alla vostra famiglia.
«Spesso mio padre metteva in collezione le cose che ci sarebbero servite per un viaggio e che non trovava. A me è capitato, che so, di entrare in un nostro negozio e accorgermi che una giacca somigliava al tappeto Navajo che avevamo in soggiorno e su cui avevo fatto cadere il gelato, o che il rosso di un vestito era uguale a quello della nostra auto. Tutti dettagli che hanno reso il marchio più autentico».
Parlando di negozi, i vostri non
sembrano spazi commerciali.
«Prendiamo lo store di Milano: se mio padre vivesse in Italia, casa sua sarebbe così. Per papà non s’è mai trattato di vendere vestiti; a lui interessa sapere cosa la gente ama fare nel tempo libero, che musica ascolta, che passioni ha, e poi traduce quelle sensazioni in stile. La sua è vita, non moda».
Per questo nelle campagne alternate modelli a persone “vere”?
«Certo. Ora è normale, ma noi lo facciamo da cinquant’anni. Uno dei nostri primi testimonial è stato il nostro medico di famiglia. E lo è stato per quattro anni! Era perfetto».
Uno studio di Bnv dice che i consumatori ora vogliono prodotti da possedere più che esperienze.
«Per noi è vitale portare i consumatori in un luogo diverso dalla realtà, più pacifico, più bello.
Tanto bello che ne vorranno avere un pezzo, che sia un foulard o un vestito da sera. In questo siamo molto simili alla Disney: entrambi diamo forma a un mondo magico, sicuro».
E come per la Disney, anche l’universo di suo padre è ormai parte dell’immaginario comune.
«Ci sorprende sempre quanto e come il marchio influenzi le persone.
Non è solo il nostro vicino di casa a vestire Ralph Lauren, ma la gente in tutto il mondo. E ciascuno fa un uso “personale” del brand. Bello».
Lei è il responsabile dell’innovazione: cosa significa?
«Proporre id ee che non siano comuni, o scontate, o già viste, e convincere gli altri a provarci. Come con l’ecommerce: abbiamo iniziato vent’anni fa, quando si pensava che nessuno avrebbe speso mille dollari sul web per un indumento. Fu un azzardo, come quando mio padre passò dal vendere cravatte ai vestiti, e poi addirittura ai mobili. Siamo abituati a fare i bastian contrari».
Restando sull’innovazione: come lo vede il futuro?
«L’integrazione tra reale e digitale ha cambiato il modo di fare shopping.
Per esempio, ora dal nostro estore si può “entrare” nelle boutique di ogni città, e fare acquisti come si fosse lì».
Avete lanciato anche The Lauren Look, un servizio di abiti a noleggio.
«Tra pochi anni i nostri guardaroba non saranno più gli stessi: ci saranno capi che terremo, altri che rivenderemo e altri ancora che noleggeremo. La gente vuol evitare gli sprechi: con questo sistema (costa 125 dollari al mese per quattro capi, ndr ) può provare i vestiti nel suo quotidiano, capire cosa funziona e rimandare indietro il resto. Più che di noleggio, parlerei di prestito.
Lo so che anche questa volta dovremo affrontare gli scettici, ma le dirò: fare da apripista non è niente male».