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 2021  novembre 27 Sabato calendario

Le cancellature di Giuseppe Verdi

Nel 1913 Giuseppe Verdi ebbe a che fare per l’ultima volta con la censura, cioè con la forma degenerata e crudele della cancellatura. Fu nel mese di giugno, quando «L’Alto Adige», giornale del Trentino irredento, celebrò il centenario della nascita di Giuseppe Fortunino Francesco (questo per esteso il nome di battesimo del compositore) con una edizione straordinaria che non poteva assolutamente scampare alle forbici del censore. Perché la prima pagina portava almeno due titoli tanto oggettivi quanto eloquenti: «Onore a Giuseppe Verdi!», subito rafforzato dal sottotitolo «Il Maestro del Risorgimento nazionale», che davvero non lasciava più dubbi in quella terra ancora accorpata all’impero austro-ungarico. 
Certo è che «L’Alto Adige» fu costretto a rilanciare immediatamente una seconda edizione dove, al posto delle parti censurate, apparivano dei tragici buchi bianchi con la parola «SEQUESTRATO» a caratteri tutti maiuscoli. La stessa logica, tre anni dopo, avrebbe portato all’impiccagione di Cesare Battisti nel Castello del Buon Consiglio. Anche questa una specialissima cancellazione, ma con esito più cruento e nefasto.
Verdi alle diffide e alle cancellazioni censorie era abituato. Prima con l’Ernani, che superò gli ostacoli eliminando i versi più inaccettabili per la sensibilità religiosa dell’epoca. Poi con il Rigoletto tratto da Le Roi s’amuse di Victor Hugo, che se l’era vista male anche lui con la censura francese, giacché a quel tempo i governi europei facevano a gara a chi censurava di più. Infine con Un ballo in maschera, sciogliendo i nodi della scabrosa vicenda con il semplice spostamento dell’azione dall’Europa alle Americhe.
Alla fine anche il Rigoletto ce la fece. Con la spiacevole conseguenza che Victor Hugo si sentì cancellato a sua volta da Verdi, il quale, per scansare le forbici del censore, aveva intimato al librettista Francesco Maria Piave di trasformare «le Roi» in un più frizzante e leggero Duca di Mantova. Questo per dire che senza cancellatura non ci sarebbe musica (il musicista contemporaneo Mauro Montalbetti ha cancellato addirittura i Quartetti di Beethoven) così come non ci sarebbe letteratura e non ci sarebbero pittura e nemmeno cinema. Perché le strade che portano alla cancellatura (e alla censura che è il suo contrario) sono veramente infinite.
Riflettevo su queste cose per capire meglio il mio stesso lavoro d’artista e di scrittore – che verte appunto sulla cancellatura e di questi stimoli ha bisogno – quando ebbi un graditissimo messaggio da Pier Luigi Ledda, direttore dell’Archivio Ricordi, che mi invitava a visitare il suo studio per mostrarmi la partitura originale del Macbeth coronata da una vistosissima cancellatura.
Volevo precipitarmi, ma erano giorni di intensissimo Covid e mia moglie mi bloccò, forse per impedirmi di essere cancellato dal virus. Fino a quando, con l’arrivo dei vaccini, superai ogni resistenza e mi mossi. Capii, allora, che l’annuncio di Ledda superava la mia stessa immaginazione. Perché quel che vidi era una cancellatura in piena regola. Una pagina verdiana completamente cassata proprio nel momento in cui l’opera prende quota con la voce del protagonista: «Due vaticini compiuti or sono…/ Mi si promette dal terzo un trono…/ Ma perché sento rizzarsi il crine?». Fino all’affondo finale: «Alla corona che m’offre il fato/ la man rapace non alzerò».
E infatti non la alza la mano, il genio di Busseto, ma la cala come una mannaia sul foglio pentagrammato, per eseguire quella che è a tutti gli effetti una delle azioni cancellatorie più coscienziose e potenti che io abbia mai visto. Come se il musicista fosse diventato all’improvviso sordo a ogni suono, probabilmente spaventato dalle morti e dagli assassini che il libretto di Piave gli prospetta ed egli cercasse la risposta non più nella musica, ma in qualcosa che alla musica guarda ma non è musica. Simile, in questo, a Michelangelo e al suo «non finito». Solo che Michelangelo, alla fine, l’opera interrotta la accetta e la offre ai posteri senza pentimenti o patemi. Mentre Verdi, che non ama le sofisticherie – neppure quelle wagneriane ventilate dal giovane Arrigo Boito —, il lavoro lo compie con assoluta baldanza.
Eppure la cancellatura verdiana non è un gesto rabbioso di stizza come quello del Buonarroti che lancia la mazzuola contro il Mosè, al quale, secondo l’artista frustrato, manca solo la parola per essere perfetto, ma piuttosto un’accumulazione ordinata di segni sulla carta, come se i capelli di Macbeth, il crine che si rizza, si sollevassero in un lampo per subito ricadere formando una maglia tanto impeccabile quanto suggestiva.
Solo nel secolo successivo, il Novecento, un musicista come Sylvano Bussotti potrà prendersi con totale sicurezza il privilegio di esporre in galleria le sue magnifiche partiture come fossero quadri. Una sicurezza che probabilmente gli veniva dall’essere nipote di Tono Zancanaro, il fratello di sua madre, uno dei più fini incisori del Novecento.
Per quanto in buona parte fondato, è un luogo comune sottolineare l’inadeguatezza linguistico-letteraria dei libretti di Francesco Maria Piave dei quali Verdi si serviva, diversamente dall’accorto Bellini che ricorreva al più bravo Felice Romani perché gli preparasse la tela sulla quale dipingere i volti di Norma o dei Puritani. Verdi la tela se la preparava da sé, e quel che cancellava con la sua musica era in realtà il libretto, risparmiando essenzialmente quelle schegge di parole che fuse con l’orchestra fossero in grado di spingere avanti l’azione drammatica. Era la musica a dire «Amami Alfredo» o «Eri tu che macchiavi quell’anima». Non la parola. Verdi, probabilmente, avrebbe potuto narrare le sue storie anche senza libretto, così come Fellini girava i suoi film senza sceneggiatura. 
Forse la vera cancellazione che Verdi fece del Macbeth fu la riscrittura del 1865, quando con il testo di Piave anche la musica subì un profondo, vistoso rimaneggiamento che ne alterava le connotazioni originarie. Un altro lavoro di cancellazione-riscrittura fu quello realizzato nel 1881 per la Scala, quando il compositore rimise mano al Simon Boccanegra, già rappresentato nel 1857 alla Fenice, affidandone a Boito la revisione radicale del libretto.
D’altra parte non possiamo ignorare che nel leggendario Archivio Ricordi non c’è soltanto l’autografo del Macbeth. C’è anche la partitura della Madama Butterfly di Puccini, titanico cancellatore anche lui, se appena consideriamo il magistrale coro a «bocca chiusa» che l’opera contiene. Lì le parole sono larve, fantasmi, integrati da una pagina totalmente sbarrata dallo stesso compositore che la chiarisce con una sentenza ben degna di un toscano irridente e insicuro del suo stesso talento: «Il più bel pezzo dell’opera!». E sotto, per non lasciare dubbi ai posteri, tanto di firma: Giacomo Puccini.
In pratica tutti gli artisti, non soltanto i poeti e gli scrittori in senso stretto, hanno bisogno dell’alfabeto e dei significati che esso adombra e produce. Il che la dice lunga sull’importanza della sapienza umana quando essa, minacciata da una comunicazione mediatica senza orizzonti, rischia di inaridirsi per sempre, dimenticando che alla fin fine tutto nasce dalle parole. Anche il mondo.