Corriere della Sera, 27 novembre 2021
Paolo Del Debbio parla del padre deportato
«È la prima volta che scrivo di questi fatti. Prima non ce l’ho mai fatta, ma ho preparato tanto materiale per poterne scrivere nel modo più accurato...».
Si potrebbero raccontare molte storie, tratte da «Le 10 cose che ho imparato dalla vita», il libro di Paolo Del Debbio che Piemme pubblica martedì: la scelta del seminario, l’uscita dopo due anni, la scoperta della «passione della carne», gli studi di filosofia, la fondazione di Forza Italia, il successo televisivo. Proprio a «Dritto e rovescio», la sua trasmissione, qualche tempo fa Del Debbio sbottò: «A me non dovete rompere le scatole sul fascismo, sono figlio di un deportato». In queste pagine l’autore racconta, tra le altre, la storia di suo padre: Velio Del Debbio, uno degli 800 mila italiani fatti prigionieri dai tedeschi dopo l’8 settembre, uno dei 650 mila che restarono per quasi due anni nei campi di prigionia in Germania. Una pagina di Resistenza di cui si è sempre parlato troppo poco.
«Velio Del Debbio era nato il 20 aprile del 1922 in una famiglia di contadini. Nacque a Sant’Anna, frazione di Lucca, come me e come Lilia che sarebbe diventata sua moglie e che morì un 20 aprile di un anno tanto tempo dopo la sua morte: il giorno in cui il suo amore di una vita era nato. Mi piace pensare che sia successo così perché in un certo senso quel giorno, incontrandola di nuovo in Paradiso, anche lui era nato un’altra volta».
Velio aiuta il padre nei campi, arrotonda lavorando in un’officina e in un autolavaggio. Unico svago, la pista da ballo, dove conosce Lilia. A 19 anni, l’esercito, la guerra, la Grecia: aviere aiuto automobilista. «L’8 settembre 1943 il mio babbo fu fatto prigioniero dalle truppe tedesche, detenuto per qualche tempo in una prigione improvvisata dove prese anche un sacco di legnate, poi messo su un treno, su un vagone merci per il bestiame, e da lì spedito in Germania, come un numero, come un animale, perché questa era la considerazione che dell’uomo aveva il nazismo, e mio padre l’avrebbe sperimentato sulla sua pelle. Nel vagone dove rimasero per dieci giorni erano circa una sessantina. Erano stremati, affamati, morti dalla stanchezza». Nelle stazioni dove il treno si fermava qualcuno, sfidando la sorveglianza dei tedeschi, portava loro qualcosa da mangiare: un po’ di pane, acqua, qualche frutto. Ma quando il convoglio «iniziò l’attraversamento dell’Austria e della Germania, la gente si rivolgeva a loro urlando: “Badogliani traditori...”, agitando le mani in segno di minaccia e di disprezzo. In tutto il viaggio furono fatti scendere una sola volta e gli dettero un ramaiolo di miglio cotto che dovettero mettere in mano o nel berretto di chi lo aveva e poi berlo da lì. Erano vestiti come erano partiti, con i pantaloni di tela e una camicia addosso».
Arrivarono nel campo di concentramento di Luckenwalde, nel Brandeburgo, sessanta chilometri a Sud di Berlino. «Furono spogliati, lavati con una canna dal potente getto di acqua fredda, gli fu buttata addosso della polvere bianca contro i pidocchi – che sarebbero stati il loro tormento durante tutta la prigionia —, gli furono fatte le fotografie, preso il nome, gli fu dato un numero (da ora in poi sarebbero stati chiamati per numero e non per nome), gli rasarono i capelli e gli furono consegnate quella specie di divise a righe verticali, di una tela che doveva andare bene sia per l’inverno che per l’estate».
L’umanità di questa povera gente veniva da un luogo dell’anima più profondo e puro della malvagità nazista, e a essa resisteva
Tutte le mattine, dopo la sveglia alle 6, freddo o caldo che sia, dopo aver dormito su un pagliericcio, i prigionieri italiani si fanno la barba. «Loro ci consideravano e ci trattavano come delle bestie, mi diceva il babbo, ma noi gli dovevamo far vedere che ci tenevamo a essere puliti e ordinati, come degli uomini, e a mostrargli la nostra dignità». Un altro momento di dignità sono le pulizie della domenica, dopo la messa celebrata dal cappellano militare: tenere in ordine la baracca è una missione comune, un modo per stare insieme, rafforzare la solidarietà, ricordare la semplicità e il rigore delle loro case contadine. Commenta l’autore: «L’umanità di questa povera gente veniva da un luogo dell’anima più profondo e puro della malvagità nazista, e a essa resisteva perché radicata nella loro realtà e non nell’idea folle suicida di quella ideologia. Il mio babbo era un uomo piagato da questa esperienza disumana, ma non era un uomo piegato. Non so francamente come, ma anche sotto le bastonate, le manganellate e le botte inflittegli col calcio del fucile aveva mantenuto la schiena dritta».
Ad alleviare la sofferenza, Velio ritrova nel campo un suo compaesano di Sant’Anna, un uomo grande e grosso, Alfio. Ma alla fine della prigionia peseranno quaranta chili. Nei campi nazisti decine di migliaia di internati militari italiani (Imi) morirono di fame, botte, stenti. «Le guardie mettevano in bella vista le ciotole piene di carne destinate ai cani, come a voler significare che i cani meritavano più rispetto di loro, i prigionieri deportati».
Luckenwalde era anche un campo di smistamento, dove passavano gli ebrei prima di essere avviati ai campi di sterminio. Per prima cosa venivano privati degli occhiali, calpestati davanti ai loro occhi dagli scarponi delle Ss. «A turno, Alfio e il mio babbo facevano loro la barba proprio per lasciar loro almeno quel brandello di dignità di un po’ di cura e igiene personale. Per questo tutti e due furono bastonati varie volte e lasciati senza il rancio quotidiano o in piedi fuori dalla baracca tutta la notte, dovendo il giorno dopo andare comunque a lavorare. Con la proverbiale ironia un ebreo disse a mio padre, non so in che lingua e come mai mio padre riuscì a capirlo: “Grazie Velio, almeno morirò con la barba fatta”. Sempre parlando di loro il mio babbo mi ha detto spesso: “Ho conosciuto qualche santo in vita”. Si riferiva alla loro fede, alla loro compostezza, alla loro dignità».
Poi i tedeschi si fecero meno arroganti, meno crudeli. La guerra ormai era perduta. Il 22 aprile 1945 nel campo arrivarono gli americani. Il viaggio di ritorno dei prigionieri durò mesi. Da Verona a Lucca Velio andò a piedi. Un bagno nel Serchio, il fiume citato da Dante e da Ungaretti, per non tornare sporco da Lelia, che l’aveva aspettato. Come tutti gli altri, della prigionia Velio non parlava quasi mai. A differenza di altri, Velio non divenne astioso, era anzi un uomo dolcissimo. E però gli incubi notturni, i risvegli improvvisi, le lacrime davanti al documentario tv sul campo di concentramento. E la morte prematura, improvvisa. «Un medico mi disse che i segni della prigionia, le ferite da qualche parte, erano rimasti nascosti e a un tratto erano venuti fuori».
Le pagine sul funerale sono commoventi, come la sintesi della storia: «Dagli ebrei ho imparato che ti possono togliere anche tutto e provare a renderti niente, ma anche in queste situazioni puoi continuare a mantenere la tua dignità nel fondo dell’anima, il luogo dal quale non la può sradicare nessuno, perché ce l’ha porta Iddio e per sempre».