il Fatto Quotidiano, 26 novembre 2021
Il caso Rai e l’errore di Conte
Ha sbagliato Giuseppe Conte nel lasciarsi andare a escandescenze pubbliche, fino a impedire, o almeno cercare di impedire, la presenza dei rappresentanti grillini nelle trasmissioni Rai, perché i 5 Stelle non sono stati adeguatamente rappresentati come primo partito del Paese nella spartizione dei ruoli di quello che è, o dovrebbe essere, un Ente pubblico.
Ha sbagliato perché, pur contestando questa spartizione partitocratica, e proprio perché l’ha contestata, Conte l’ha avallata. Se i grillini fossero stati adeguatamente rappresentati in Rai, secondo la loro attuale forza parlamentare, Conte non avrebbe probabilmente proferito verbo. E questo è in totale contrasto con l’originaria concezione dei 5 Stelle secondo cui la Rai avrebbe dovuto essere sottratta all’occupazione, del tutto arbitraria, da parte dei partiti. Se c’è un renziano in più o un grillino in meno la sostanza non cambia. È la spartizione partitocratica della Rai ad essere del tutto illegittima e che non può essere accettata.
Intendiamoci, la presa dei partiti sulla Rai esiste da quando esiste la Rai. Alle origini la Rai era in mano a un solo partito, la Dc, che aveva ben capito il potere di questo mezzo che non le deriva dal fatto di “far vedere” (anche un film “fa vedere”) ma dall’essere piazzata nelle nostre case. Non è possibile ignorarla. Il Pci, il grande antagonista di allora, aveva scelto una strada diversa: portare dalla propria parte gli artisti e, in modo particolare, i registi (tutto il “neorealismo” è fatto di questa pasta). Agendo in un regime di monopolio commerciale, e che quindi non era sottoposto ai diktat di Auditel, la Rai di Ettore Bernabei poteva permettersi di offrire trasmissioni di alto e anche di altissimo livello. Prendiamo il “varietà” del sabato sera, l’intrattenimento popolare per definizione. Si chiamava Un, due, tre di Tognazzi e Vianello; Il mattatore di Gassman; Alta fedeltà (testi di Chiosso e Zucconi); Studio uno di Walter Chiari (1963), Lelio Luttazzi (1964), Ornella Vanoni (1966); Il signore di mezza età a cura di Camilla Cederna, Marcello Marchesi, Gianfranco Bettetini, presentato dallo stesso Marchesi con Lina Volonghi e Sandra Mondaini; L’amico del giaguaro, con Bramieri, la Del Frate e Raffaele Pisu; Scarpette rosa con Carla Fracci, Walter Chiari, Mina; Quelli della domenica con Paolo Villaggio (testi di Marchesi e Costanzo). Erano tutti spettacoli che si sostenevano su professionisti di ottimo livello che, per necessità, dovevano essere presi tutti dalle arti e dai mestieri, fosse pure il circo di Moira Orfei, perché quella prima televisione non poteva alimentarsi di se stessa, come invece avviene oggi dove basta una comparsata di un signor nessuno per farne un personaggio che poi ripresentandosi per saecula et saeculorum sul piccolo schermo ci ossessionerà per anni pur non avendo nulla da dire e da dirci. Inoltre quella Televisione bernabeiana cercò di unificare l’Italia dei dialetti a un italiano di buon livello, c’erano addirittura venature “puriste” in quel linguaggio, tanto lontano dal basic-english-romanesco di oggi. C’era poi lo sceneggiato all’italiana (Riccardo Bacchelli, Il mulino del Po) e la trasmissione dei grandi romanzi dell’Ottocento dai Fratelli Karamazov ai Demoni di Dostoevskij (con la straordinaria interpretazione di Luigi Vannucchi nel ruolo del principe Stavrogin). Bernabei si permise di dare alle 20.30, Il settimo sigillo di Ingmar Bergman. Ognuno lo interpretò secondo la propria sensibilità, la mia segretaria (lavoravo allora in Pirelli) lo prese come un noir e in fondo ci stava anche quello.
In quella televisione c’erano ‘pruderie’ comiche, la parola “uccello” era proibita e quando il finto ingenuo Mike disse: “Ahi, ahi, signora Longari lei mi è caduta sull’uccello” suscitò un putiferio, che ancor oggi si ricorda, ma sempre in termini bonari, come più bonaria era la società di quegli anni. Né io sono così ingenuo da non conoscere i rischi di totalitarismo che ci sono in ogni dirigismo. Resta il fatto che quella era una tv che avrei fatto vedere a mio figlio senza dovermene vergognare. Quella di oggi non è immorale (magari): è semplicemente volgare.
Il patatrac accadde quando nel 1975, con un’apposita Legge, fu introdotto il cosiddetto “pluralismo” televisivo, cioè le tre Reti Rai, con i loro addentellati, dovevano essere assegnate ai partiti: la Rete Uno di regola alla Dc, la Due al Psi, la Tre alla sinistra. Dovendo competere fra loro per acquisire audience, le tre reti Rai, aggiogate a questo o a quel partito, cosa che nessuno nega nemmeno fra i protagonisti di allora che pur se la danno da indipendenti, dovettero abbassare il proprio livello culturale. L’avvento delle “commerciali” ha fatto il resto. Quello culturale non è un “prodotto” come gli altri. Se io ti do una mela buona tu la mangi, se te ne do una un po’ meno buona tu la mangi, se te ne do una ancora meno buona tu la mangi lo stesso, ma se tu mi dai una mela marcia io te la butto in faccia. Il “prodotto” culturale può invece abbassare all’infinito il suo contenuto per ottenere audience più ampie, abituando così a un livello infimo i suoi consumatori che chiederanno un prodotto ancora più basso. E questo è il punto cui siamo arrivati oggi dove alle 20.30 invece di Bergman c’è una tipa che deve rispondere, per qualche centinaia di migliaia di euro, alla fulminante domanda: “Qual è l’infinito di volo”?
Come si esce da questo avvitamento? Non è poi così difficile se ci rifacciamo al modello britannico. In Gran Bretagna la Bbc, che è considerata una delle migliori televisioni al mondo, dipende dal governo inglese, perché anche il governo, rappresentando il Paese, ha il diritto e il dovere di dare, latu sensu, una sua impronta culturale. All’infuori della Bbc ci sono poi network privati che si battono tra loro per avere la maggior audience possibile, senza dover badare agli interessi pubblici e più in generale del Paese. Londra è a un’ora e mezza di volo. È così difficile riprendere da quel modello, che tiene ben fermo l’interesse pubblico senza castrare quello commerciale dei privati? Parrebbe di sì se ora anche il M5S, che doveva spazzare via la presa partitocratica dei partiti sulla Rai, fa, attraverso le parole di Conte, il ponte isterico perché ritiene di non aver avuto in questa spartizione il posto che pensa, non per Legge ma per consuetudine, che gli spetti. In fondo Conte, dando l’aria di contestare la spartizione pubblica della Rai, l’ha – di fatto e del tutto involontariamente – avallata.Massimo Fini
Caro Massimo, magari la lottizzazione Rai fosse illegittima! Purtroppo è non solo legittima, ma addirittura imposta dalla legge (Gasparri, peggiorata da Renzi). Il M5S ha presentato una proposta di legge per riformarla nel senso della Bbc, senza però trovare i voti necessari in Parlamento. Nell’attesa, il governo lottizza in base alla legge vigente: ed è vergognoso che lo faccia con tutti i partiti, fuorchè col più rappresentato in Parlamento.
(M. Trav)