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 2021  novembre 26 Venerdì calendario

La Kennedy lobotomizzata, sorella di JFK

«Dopo avere sedato Rosemary in modo leggero, aprimmo la sua fronte all’apice. Penso fosse sveglia, le avevamo dato solo un debole tranquillante. Feci due piccole incisioni chirurgiche. Da entrambe le parti. Non più larghe di un pollice», racconterà anni dopo James W. Watts, il chirurgo del George Washington University Hospital, a due passi da White House, che si era prestato a operare la ragazza al posto di Walter J. Freeman, il santone della lobotomia che non era autorizzato a usare il bisturi ma girava l’America con un furgone chiamato «LobotoMobile» dove «quietava» i pazienti per 25 dollari cash. 
Usava, spiegherà Watts in quell’unica sua intervista, uno strumento che «aveva l’aspetto di un coltello per il burro» e lui muoveva «avanti e indietro, sopra e sotto, per tagliare sulla fronte il tessuto cerebrale» mentre lo stregone Freeman chiedeva alla paziente di recitare una preghiera, cantare God Bless America o contare a ritroso: 100, 99, 98, 97... «Le sue pulsazioni divennero più rapide, la sua pressione sanguigna salì. Decidevamo quanto tagliare in base alle sue risposte... Io facevo le incisioni, il dottor Freeman stimava via via quanto dovevamo tagliare in base a quanto lei rispondeva... Quando diventò incoerente lui disse: “Adesso basta’”. E ci fermammo». 
Rosemary Kennedy da quel momento non era più un problema. Entrata in sala operatoria bella, florida, con tutta l’esuberante vitalità dei suoi 23 anni un po’ svitati, era ora ridotta a una disabile semiparalizzata, incapace di intendere e volere, gravemente limitata nella parola, fuori portata per ogni vitellone biondo e aitante che avesse mirato a lei o alla sua dote familiare creando imbarazzi a quella sorta di «Famiglia reale» americana. Era il novembre 1941. Ottant’anni fa. 
Era stato lui, Joseph P. Kennedy, ambizioso, ricchissimo e «disinvolto» imprenditore nipote d’un irlandese cattolico immigrato in Massachusetts, a volere la lobotomia. Sposato con la figlia dell’allora sindaco di Boston, Rose, lanciato in politica al punto d’esser nominato ambasciatore nel Regno Unito ma presto mortificato da Franklin D. Roosevelt col richiamo in patria per sospette simpatie verso Hitler, era decisissimo a portare un figlio, grazie alle sue disponibilità finanziarie e alle influenze, alla Casa Bianca. 
Ma Rosemary? Come doveva regolarsi, con Rosemary? Nata nel settembre 1918 nella villa di famiglia, dov’era stata allestita una stanza asettica con tanto di ostetrica, la bimba era infatti rimasta vittima di un parto complicato. Colpa delle doglie improvvise? Dell’infermiera che consigliò a Rose di tener duro in attesa del dottore? Della mala sorte? Fatto è che la piccola era nata con un ritardo mentale che sulle prime era parso lieve ma col tempo s’era aggravato. «Era una bambina bellissima, somigliava alla mamma», scriverà in un articolo pubblicato nel 1962 sul «Saturday Evening Post» la sorella Eunice, che diventerà col marito Robert Sargent Shriver una storica sostenitrice dei diritti dei disabili e delle Paralimpiadi, «per molto tempo la mia famiglia pensò che tutti noi, lavorando insieme, potessimo offrire a mia sorella una vita felice in mezzo a noi». 
Per anni, insisterà, «questi sforzi sembrarono funzionare. I miei genitori e noi altri otto fratelli cercavamo di includere Rose in tutto ciò che facevamo». A tavola però «non era in grado di tagliare la sua carne, che le veniva servita già tagliata. Più tardi, durante l’adolescenza, fu sempre più difficile per lei. Nella competizione sociale non poteva tenere il passo». Il passo dei Kennedy, poi! «Nel 1941, quando tornammo negli Stati Uniti, Rosemary non faceva progressi, ma pareva anzi andare indietro. A 22 anni stava diventando sempre più irritabile e difficile. La sua memoria, la sua capacità di concentrazione e il suo giudizio stavano declinando. Mia madre la portò da dozzine di psicologi e dottori. Tutti dissero che le sue condizioni non sarebbero migliorate e che sarebbe stata molto più felice in un istituto, dove c’era molta meno competitività e dove le nostre numerose attività non avrebbero messo a repentaglio la sua salute». Testuale. 
La storica Kate Clifford Larson, la prima ad aver accesso a tutte le lettere della ragazza (piene di errori) e autrice del libro Rosemary: la figlia nascosta di Kennedy, ricostruisce un quadro del ritorno in patria ancora più drammatico. Anzi, disastroso, per usare le parole della scrittrice e accademica Meryl Gordon sul «New York Times»: «Era regredita, aveva convulsioni e violenti scoppi d’ira, colpiva e feriva quanti si trovavano nelle vicinanze. I genitori la mandarono in un campo estivo nel Massachusetts (cacciata dopo poche settimane), in un collegio di Filadelfia (pochi mesi), quindi in una scuola conventuale a Washington dove la ribelle Rosemary si allontanò di notte...». A farla breve: Joseph e Rose Kennedy erano sempre più angosciati all’idea che qualcuno potesse «approfittare sessualmente della loro figlia vulnerabile» e che uno scandalo potesse scardinare «le prospettive politiche della famiglia». 
Vero? Falso? Possibile. Fatto è che a un certo punto, pare senza parlarne alla moglie, Joseph si pose il problema di «disinnescare», diciamo così, la ragazza (che nelle lettere scriveva al papà: «Farei qualsiasi cosa per renderti felice») e decise di affidarsi a quella lobotomia fino ad allora sperimentata, con esiti molto controversi, sulle scimmie (i primi erano stati due scimpanzé, Lucy e Becky, che avevano perso ogni aggressività ma pure ogni interesse al mondo intorno) e su un ristretto numero di pazienti. Una «cura» ad alto rischio, rifiutata dall’American Medical Association perché, come scriverà in The Sins of the Father il saggista Ronald Kessler, «a causa del danno cerebrale i pazienti diventavano essenzialmente degli zombi». Era consapevole, Joe Kennedy, di tutti i rischi? 
Certo è che li accettò. Né la famiglia, a quanto pare, glielo rinfacciò mai pubblicamente. Unica eccezione, forse, una frase di Eunice in quell’articolo del ’62, mentre il fratello John Fitzgerald era presidente degli Stati Uniti e un altro, Robert Kennedy, ministro della Giustizia. Articolo dove, spiegando che comunque a Rosemary il ricovero in istituto «unito alla comprensione delle suore responsabili» rendeva «la vita gradevole», scriveva: «Mi riempie di tristezza pensare che questo cambiamento non sarebbe stato necessario se avessimo saputo allora ciò che sappiamo oggi». Era dunque un passo «necessario»? 
Mah... Certo in un’America che aveva visto 29 Stati (ventinove!) promuovere orribili leggi di sterilizzazione eugenetica, lei stessa si sentiva in dovere di spiegare che «come il diabete, la sordità, la poliomielite o qualsiasi altra disgrazia, il ritardo mentale può verificarsi in qualunque famiglia. È successo nelle famiglie dei poveri e dei ricchi, dei governatori, dei senatori, dei premi Nobel, dei dottori, degli avvocati, degli scrittori, degli uomini di genio, dei presidenti delle corporation, del presidente degli Stati Uniti...». Segno che nella Casa reale americana Rosemary, che sarebbe morta nel 2005 sessantaquattro anni dopo essere stata spenta, era rimasta una ferita aperta.