Corriere della Sera, 26 novembre 2021
Biografia di Roberto Andò raccontata da lui stesso
«Ricordo Richard Burton che arriva ubriaco, più del solito, sul set. Gli tremavano le mani, persino le labbra... e quella mattina avrebbe dovuto girare una scena in primo piano. Vittorio De Sica si rende ben presto conto che è impossibile realizzare un’inquadratura dell’attore in quelle condizioni e annulla la scena. Burton si innervosisce, si inalbera, non accetta la decisione del regista e, a quel punto, il grande De Sica ferma tutto il set: con la sua eleganza, la sua sapienza, esprimendosi in un inglese molto disinvolto, dà il via a una dissertazione, una colta lezione di cinematografia sull’importanza di effettuare le riprese in un modo, piuttosto che in un altro. Conclude, quindi, che a volte è molto meglio farsi riprendere di spalle, perché rende più affascinante il personaggio interpretato... Così mise a tacere la protesta dell’attore, che accettò la proposta».
Roberto Andò era poco più di un ragazzino, ma già appassionato di cinema, quando riuscì, grazie a conoscenze familiari, a introdursi nel set de «Il viaggio», l’ultimo film firmato da De Sica e tratto dall’omonima novella di Luigi Pirandello, di cui era protagonista la coppia Burton-Sophia Loren.
«Quella fu la mia iniziazione – racconta il regista-scrittore palermitano —. Ero protetto dalla meravigliosa Sophia e anche De Sica, in là con l’età, mi aveva preso a ben volere. Tutte le mattine, durante le pause, mi faceva cenno di avvicinarmi a lui, per chiedermi se conoscevo il barone Caio, la principessa Sempronio o il conte Tizio che lo avevano invitato a cena per poi fare una partita a carte al Circoletto, un circolo nobiliare...».
E lei conosceva tutti questi blasonati?
«Beh... diciamo che, quando potevo, cercavo di rendermi utile chiedendo informazioni ai miei genitori... non volevo deludere il regista... ci tenevo tanto a frequentare il set e scoprirne i meccanismi».
Però il battesimo in letteratura lo ha avuto con Leonardo Sciascia.
«In quel caso fui aiutato da Elvira Sellerio, molto generosa con me. Voleva aiutarmi e mi introdusse nella sua casa editrice per presentarmelo, mentre il grande scrittore stava correggendo le bozze di un suo romanzo e io aspiravo a scrivere il mio primo testo letterario. Fu un incontro decisivo della mia vita. Nacque tra noi una speciale amicizia e la mia incondizionata ammirazione nei suoi confronti: è stato il primo autore siciliano che ha affrontato nelle sue opere il problema della mafia. All’epoca, in una estesa zona grigia, tutti erano eccessivamente tolleranti verso ciò che stava avvenendo, cioè l’offensiva delle cosche nella vita civile e la loro penetrazione nel ceto politico. Negavano questo “cancro”, questa criminalità endemica della nostra terra che veniva sempre descritta come l’isola della luce, dei colori, degli odori... E invece Sciascia introduce la mafia pre-droga nei suoi testi, cercando di capirne la “filosofia”. Alcuni, poi, arrivarono a dire che Sciascia ne aveva subito il fascino: una cosa assurda, assolutamente falsa. L’attenzione al problema era nata dalla sua attività di maestro elementare a Racalmuto, dove insegnava a bambini poveri, bistrattati, figli di zolfatari e, attraverso di loro, aveva conosciuto la mafia rurale. Quando pubblicò il libro “Le parrocchie di Regalpetra”, nato proprio dal suo impegno didattico e dove descriveva questa drammatica realtà, lo accusarono persino di essere un delatore: lui aveva rotto il patto di silenzio con una Sicilia buia e con lui si era accesa una luce sulla verità. Proprio per questo, mi diceva: “Perché rimani a Palermo, perché non te ne vai? Vattene, vai via da qui!”. Ma la mafia, purtroppo, non è solo una questione siciliana».
Infatti, nel suo romanzo «Il bambino nascosto», diventato anche film, lei racconta la camorra...
«A Palermo, come a Napoli, l’arruolamento nella criminalità organizzata è ancora una piaga sociale. Ragazzini di 9-10 anni vengono coinvolti nella delinquenza che appare come unica prospettiva, altrimenti sei un nulla: nuddu mischiato col nuddu. Spesso sono i pentiti a raccontare tale condizione psicologica, che non riguarda solo il Sud d’Italia: ormai una mafia dissimulata ha interessi anche al Nord e ovunque. Occorre averne consapevolezza e, in certi casi, molto coraggio per vincerla».
Il coraggio che ha avuto Letizia Battaglia, fotografa de «L’ora» di Palermo, su cui lei sta girando un tv-movie in due puntate con Isabella Ragonese nel ruolo della protagonista?
«È stata la prima donna a entrare in un mondo di colleghi maschi e a sopravvivere in un mestiere difficile nei terribili anni delle stragi. Attraverso la sua biografia rivedo tutti i morti per i quali non mi sono pacificato. Perché è pur vero che la mia città è migliorata, in qualche modo ripulita da quando ero ragazzo e ne vedevo solo le rovine, ma dietro l’angolo c’è ancora la “monnezza”. Tuttavia bisogna stare attenti a raccontare queste storie sul potere mafioso, il rischio è di esaltare il fascino del male, che attira più del bene».
Ha conosciuto Giovanni Falcone e Paolo Borsellino?
«Ho avuto la fortuna di conoscerli entrambi, in momenti diversi: ho pianto quando sono stati uccisi, con la loro morte ho visto il crollo di ogni prospettiva di legalità a Palermo, una capitale senza vertebre, segnata da qualche importante presidio intellettuale e da molto malessere psichico. Per fortuna, dopo il loro sacrificio, è avvenuta una grande mobilitazione civile, ma non ci si può affidare poi solo alle commemorazioni, non bastano a scuotere le coscienze, occorre fare di più. Il grosso problema della giustizia italiana è che restano tanti buchi neri, tanti misteri irrisolti, non si è ancora fatta luce su tanti avvenimenti e i morti senza giustizia devono rappresentare un monito per tutti noi. Bisogna alzare la voce, come hanno saputo fare scrittori come Sciascia o Camilleri».
Quel Camilleri che lei riportò in palcoscenico tre anni fa, al Teatro Greco di Siracusa nel ruolo dell’indovino Tiresia, una memorabile performance, la sua, quando ormai era diventato cieco, un anno prima della sua scomparsa.
«Quella sera, dopo i calorosi applausi che meritatamente ricevette per la sua interpretazione, mi disse in disparte: “Mentre recitavo ho visto un gatto che mi fissava”. Era impossibile che nelle vicinanze del palcoscenico ci fosse un gatto... Oltretutto Andrea non era in grado di vedere nemmeno il pubblico che affollava la platea, quindi come avrebbe potuto scorgere una bestiola? E allora ho pensato, fra me e me, che quel gatto era un’immagine di morte: qualcuno gli aveva mandato un messaggio, che purtroppo si è avverato l’anno successivo».
Scrittore, regista di cinema, teatro, televisione, opera... Non sarà troppo?
«Me lo chiedo anch’io e una volta me lo chiese pure Nanni Moretti! Ma questa scissione tra la letteratura e il cinema non l’ho mai curata, anzi direi che semmai l’ho alimentata allargandola poi al teatro e alla lirica. Da giovane, questa mia natura da poligrafo era vista con sospetto, oggi direi che è accettata. Poter passare da un set cinematografico alle prove in un teatro d’opera lo considero un privilegio: c’è in me un ritmo che è un flusso sanguigno, l’urgenza di fare si moltiplica».
E oggi dirige anche il Mercadante e il San Ferdinando. Come si trova un palermitano a Napoli?
«Palermo è più triste di Napoli, ha una cupezza esasperata, è come se elaborasse continuamente un lutto, prevale il senso di morte. Napoli gioca con la morte, ha la capacità di inventare sé stessa, è un cantiere aperto e il suo centro è proprio il teatro, una forma di vita che mi mette in perenne stato di eccitazione. È una metropoli anarchica e tutti i suoi pregi possono essere anche i suoi difetti. Diceva Pasolini che i napoletani sono una grande tribù che, invece di vivere nel deserto o nella savana, come i Tuareg e i Beja, vive nel ventre di una grande città di mare».
Finora abbiamo parlato dei suoi successi. Il suo peggiore insuccesso?
«Gli insuccessi lavorativi sono sempre da mettere in conto, ma voglio ricordare un insuccesso privato, o meglio, un episodio negativo che mi porto dietro dall’infanzia. Un mio compagno di scuola una volta mi disse una cosa profondamente offensiva e dolorosa, io lo colpii con un pugno e credo di avergli spezzato un dente che gli ha causato problemi per tutta la vita. È un ricordo indelebile, riguarda un sentimento fortissimo che è insieme di violenza subita e agita».