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 2021  novembre 26 Venerdì calendario

Intervista a Romano Prodi

Se gli si chiede «Come sta?», Romano Prodi risponde: «Troppo bene». E si sente – nella voce – che è così. Ha scritto un libro che racconta attraverso 100 immagini il senso dell’Europa ai suoi nipoti, e a tutti noi. Lo ha fatto con una sorta di candore: ricorda, l’ex presidente del Consiglio e della Commissione europea, che da quando i nostri Paesi si sono uniti, nel continente sono cessate le guerre. Ripercorre questa prima conquista e poi tutte le altre, parla delle ferite, dei pericoli, ma sempre – costantemente – delle possibilità. Di quel che c’è ancora da fare e di come bisogna agire. Sul Quirinale dice: «So contare, quindi seppure questo Pd non fosse più quello dei 101, è troppo piccolo per dare le carte». Quanto a Silvio Berlusconi: «La sua aspirazione è legittima, ma dovrebbe imparare a contare anche lui».
Come mai ha scelto 100 immagini per raccontare l’Europa?
«Perché bisogna far entrare il senso dell’Europa nell’immagine quotidiana della vita politica, come un fatto familiare e nello stesso tempo fatale. Non è un caso che abbia dedicato questo libro ai miei nipoti: spero vedano l’Europa compiuta, ma non ne sono sicuro perché i processi democratici, se vogliono essere tali, sono molto lenti. È il nostro problema nella sfida con i regimi autoritari, che sono molto più veloci».
Scrive che bisogna superare il meccanismo dell’unanimità per far marciare l’Unione, troppo spesso bloccata da interessi contingenti dei singoli Stati.
«Sia per la politica contingente che per il semplice fatto che con il diritto di veto un nano si sente un gigante».
A commento di un’immagine che ricorda il piano Marshall, spiega che per una vera ricostruzione servono forza e coesione della società. Oggi le abbiamo?
«Parliamo soltanto di soldi! O di generici macro-processi di riforme. E invece il cambiamento si fa con i mutamenti nella vita quotidiana. Servono il funzionamento della pubblica amministrazione, della giustizia, ma anche delle imprese, della struttura economica. Altrimenti avremo solo un bellissimo respiro che rischia di durare poco. Non è approfittando di un incentivo temporaneo che si cambia il Paese».
Visto quello che accade nei Paesi dell’ex blocco sovietico, si è mai pentito dell’allargamento a Est?
«Ci ho pensato spesso, ma non mi sono pentito. A parte che i treni della storia passano una volta sola, si immagini oggi una Polonia uguale all’Ucraina. Il dramma delle tensioni che ci sono oggi con Polonia e Ungheria è estremamente inferiore rispetto a quel che sarebbe successo senza l’allargamento. Quando vedo che a Versavia c’è un governo che fa tutti i dispetti possibili, ma i sondaggi scoprono che il 90% dei polacchi dice sì all’Unione, penso che queste tensioni siano fortemente negative, ma temporanee. E il disegno europeo invece sano e permanente. Anche se non passerei il mio tempo libero con Katczynski e Orban».
Giorgia Meloni guarda molto a Orban, alla destra spagnola di Vox.
«Ma è amore o è ancora una volta politica interna pura pura pura? Che adocchia un elettorato di "no vax politici" per curare la diversità della sua base? Così facendo mette in difficoltà un grande disegno per un interesse breve, accodandosi a una storia arretrata».
L’Europa dei sovranisti arretra davvero?
«Sì, ma quello che mi preoccupa è un rigurgito di sovranismo in Francia. Che per motivi di politica interna un uomo come Michel Barnier metta delle piccole zeppe perché è entrato in una situazione pre-elettorale, mi colpisce. Sa bene che il diritto europeo deve stare sopra quello degli Stati, sennò si sfascia tutto. Ancora una volta c’è un aspetto della Francia profonda che rallenta la corsa».
Come fu per la Costituzione europea?
«Esattamente. Ho visto molte volte la Francia governare con lo specchietto retrovisore. E invece ora bisogna definire una volta per tutte i confini dell’Europa: entrino Albania, Serbia e gli altri Paesi della ex Jugoslavia. Poi basta. La Turchia ha scelto un’altra strada».
Come possiamo richiamarci ai valori europei e tenere fuori con la forza, l’indifferenza e la violenza profughi che le leggi internazionali ci chiedono di accogliere?
«Sono d’accordo con Ursula von der Leyen: non possiamo noi europei finanziare muri. Davanti a quel che accade in queste ore, anche nella Manica, spero che i Paesi del Nord si accorgano finalmente che l’immigrazione è un problema di tutti e cambino le regole di Dublino».
La coalizione tedesca vuole dare la cittadinanza agli immigrati dopo tre anni. Sono pazzi loro o noi?
«Ho sempre pensato che sull’immigrazione bisognasse aprire e nello stesso tempo tranquillizzare il nostri cittadini, per questo avrei cominciato da tempo a intervenire gradualmente, a partire dallo ius culturae. Conosco ragazzi che sono raffinati tecnici, lavorano qui da molti anni, poi scopro che non hanno la cittadinanza. Che senso ha?».
Una delle immagini che ha scelto è un’allegoria del populismo che mangia la democrazia.
«Il populismo rimarrà, ma ha già cominciato ad arretrare. Quello che mi spaventa è però l’arretramento della democrazia in sé, non di fronte al populismo, ma di fronte all’autoritarismo. In Africa, dove abbiamo assistito a una gioiosa speranza di democrazia, quelli che hanno vinto le elezioni cambiano la costituzione in senso autoritario per rimanere al potere. Siamo di fronte a un’involuzione. Xi Jin Ping dice: "Noi facciamo le cose, voi democrazie non le fate, il mondo guarderà a noi". Dobbiamo far vedere che la democrazia è operante, inclusiva, abbassa le paure e nello stesso tempo promuove la crescita. E invece, un astensionismo sempre maggiore è il primo passo verso il suo indebolimento».
Cosa pensa della trasformazione dei 5 stelle: da forza antisistema a forza istituzionalizzata?
«Era fatale, inevitabile quando si deve andare al governo».
Nel centrosinistra c’è chi li vuole accanto e chi li vuole fuori: lei con chi sta?
«Ho interpretato le ultime comunali come un esperimento e tutto sommato la ritengo un’alleanza possibile. Ma in alcuni processi di cambiamento i 5 stelle devono fare grandi passi avanti. Pensavo che dopo l’uscita di Di Battista il processo accelerasse. Mi dicevo: è uscita la frangia estrema, il partito adesso… mi è scappata la parola partito».
Scappa spesso anche a loro.
«Pensavo fosse entrato in una fase di revisione e che questo avrebbe accelerato tutto, ma è un percorso ben più lento. Se ci sono nuove scissioni, il Movimento è finito. Se si dividono ancora, vanno a finire in nulla».
Dello spostamento a destra di Renzi che pensa?
«La situazione di Renzi è molto difficile. Da solo non può stare, col Pd fa a botte quotidianamente. È la sua vita che l’ha portato a destra. Se rompi, rompi, rompi… c’è stato un attimo in cui progettava di dar vita a un centro moderato, poi si è messo a litigare anche con quel poco di centro che c’è!».
E Carlo Calenda?
«È molto più empirico. Quando non si infuria, per i contenuti, sembra un alleato naturale del Pd. Ma per lui c’è il problema dei 5 stelle. Ecco cosa: è bravo, ma impaziente. In politica la pazienza è fondamentale».
Ma del lavoro che sta facendo Enrico Letta e del progetto di un nuovo Ulivo cosa pensa?
«Quello di Enrico Letta è un lavoro paziente che tende a unire e finalmente sta dando frutto. Ulivo o non Ulivo, ciò che conta è mettere insieme i riformisti».
Avrebbe mai pensato che avremmo parlato un giorno della possibilità che Silvio Berlusconi vada al Colle?
«È un suo legittimo desiderio, ma se anche Berlusconi imparasse a contare, capirebbe che non è realizzabile».
Cosa pensa delle tensioni nel Paese per i no vax, i no Green pass, le proteste di chi non accetta le misure per contrastare la pandemia?
«Ho sempre pensato che i problemi si sarebbero risolti con il vaccino obbligatorio, poi capisco che in politica si fa quello che si può. È una strana involuzione: l’umanità ha sempre accettato tutti i vaccini e ora vi si oppone. Purtroppo non è un economista che può dare risposte su come e perché siano nate queste angosce, del tutto ingiustificate, ascientifiche, un vero regresso dell’umanità».