La Stampa, 25 novembre 2021
Afghanistan, la fame o la fuga
«Chiedo al governo degli Stati Uniti d’America di adottare misure responsabili, chiedo che i beni della Banca centrale afghana siano sbloccati e le sanzioni contro le nostre banche siano revocate. Se persiste questa situazione, il popolo afghano diventerà causa di migrazioni di massa nella regione e nel mondo» sono parole di Amir Khan Muttaqi, il ministro degli esteri taleban che la settimana scorsa ha scritto una lettera aperta al Congresso degli Stati Uniti.
Righe insieme allarmate e astute in cui da un lato il governo taleban cerca l’appoggio internazionale, dall’altro scarica la responsabilità della crisi umanitaria ricondotta interamente, si legge, «al congelamento dei beni del nostro popolo da parte del governo americano».
Sono passati tre mesi dalla caduta di Kabul, mesi in cui i taleban hanno tentato di convincere la comunità internazionale di non essere più quelli che dal 1996 al 2001 hanno isolato il Paese dal resto del mondo.
I taleban di oggi cercano di costruire una parvenza di presentabilità, nonostante nel loro governo non siano state nominate ministre donna, e alle ragazze è ancora vietato tornare alla scuola secondaria. L’Afghanistan di oggi non è quello di trent’anni fa, si è detto molte volte in queste dodici settimane, c’è un embrione di società civile che non tornerà indietro di decenni. Forse. Intanto però centinaia di media sono stati costretti a chiudere o oscurati, i giornalisti sono quotidianamente minacciati e sono ricominciate le esecuzioni pubbliche e i processi sommari. Finite le evacuazioni di massa dall’aeroporto di Kabul, spenta di conseguenza la maggioranza dei riflettori, agli afghani resta la frustrazione per l’abbandono senza prospettive e una crisi umanitaria che è già velocemente precipitata.
Amir Khan Muttaqi, mentre scrive, sa che il suo governo non riesce a pagare medici, insegnanti e altri dipendenti pubblici, sa che le sanzioni hanno reso impossibile per le Nazioni Unite e altri gruppi umanitari pagare il personale e sostenere le operazioni di soccorso e sa che se non vengono sbloccati i fondi, milioni di persone moriranno di fame.
Per questo ribadisce alla comunità internazionale gli effetti del congelamento del denaro, lo fa in tono vagamente ricattatorio, usando la leva più temuta dall’Occidente, che è sempre la stessa, in ogni scenario di crisi, dal confine turco, a quello Bielorusso al Mediterraneo centrale: insinuare il timore di un esodo, di un flusso migratorio incontrollato se non verranno velocemente sbloccati i nove miliardi di dollari in attività della Banca Centrale afghana e ora bloccati dalla Federal Reserve degli Stati Uniti, a cui va aggiunto più di un miliardo di dollari della Banca Mondiale e del Fondo monetario internazionale. Soldi che avrebbero dovuto rilanciare l’economia afghana nel 2021-2022 e che ora sono congelati: «Se l’attuale situazione non si sblocca ci saranno migrazioni di massa nella regione e nel mondo» si legge nella lettera diffusa in varie lingue. A buon intenditor. Muttaqi è preoccupato ma scaltro. Sa di far parte di un governo monocolore taleban irricevibile dalle diplomazie internazionali che chiedono un governo inclusivo e rispettoso delle minoranze come condizione per le negoziazioni, però ribadisce che il nuovo governo di Kabul dallo scorso agosto «è riuscito a portare stabilità politica e sicurezza nel Paese».
Come a dire che i taleban hanno ristabilito un ordine, il loro, certo, quello della stretta applicazione della sharia, delle donne escluse dalla vita pubblica, del ripristinato Ministero per la promozione della Virtù e la prevenzione del Vizio e dei tribunali militari per far rispettare «il sistema della sharia, i decreti divini e le riforme sociali» ma che questo è il prezzo della stabilità, per le strade non si muore più come prima, e ora gli afghani vanno aiutati a non morire di stenti.
La lettera è un concentrato di understatement e furbizia. Scrive Muttaqi: «Come in altri Paesi del mondo, anche le nostre relazioni bilaterali hanno sperimentato alti e bassi».
In quelle parole, «alti e bassi», il capo della diplomazia taleban sta esplicitando un paradosso della crisi afghana ma anche il dilemma morale che oggi grava sui governi occidentali, sta dicendo al Congresso americano: è piuttosto ipocrita chiudere le porte alla negoziazione oggi che la gente muore di fame, perché voi con noi avete già trattato, avete negoziato a Doha, avete siglato un impegno bilaterale che aveva una data di scadenza, agosto 2021 e che entrambi abbiamo rispettato. Voi poi avete ritirato le truppe, noi abbiamo preso il potere.
Muttaqi palesa un’ambiguità che da tre mesi fingiamo di non vedere in Afghanistan: molti degli esponenti del governo taleban ancora non riconosciuto come legittimo da nessun Paese, sono gli stessi con cui l’amministrazione Trump prima e l’amministrazione Biden poi hanno trattato per mesi in Qatar, fino alla firma degli accordi di Doha.
Allora, quando si trattava il ritiro delle truppe occidentali, i talebani sembravano presentabili, oggi che bisogna negoziare per sfamare la gente, lo sembrano meno.
Scrive Muttaqi: «Speriamo che i membri del Congresso americano riflettano a fondo e considerino i problemi del nostro popolo derivanti dalle sanzioni e non affrontino questa questione umanitaria in un modo superficiale».
Tradotto: prima trattate con noi e poi, quando gestiamo un potere che ci avete di fatto consegnato, non ci aiutate più, chiudete i rubinetti del denaro, e usate i fondi come mezzo di ricatto per negoziare un governo più inclusivo.
Intanto la gente muore di fame. Chi sopravvive prova a scappare.
La scorsa settimana il Consiglio norvegese per i rifugiati ha riferito che 300 mila afghani sono fuggiti in Iran da agosto, e che ogni giorno circa 5 mila persone continuano ad attraversare il confine illegalmente, il Programma alimentare mondiale delle Nazioni Unite ha avvertito che a causa delle conseguenze del conflitto e della prolungata siccità più della metà della popolazione stimata del Paese di 40 milioni di persone è a rischio carestia durante il prossimo inverno.
Secondo l’ultimo rapporto della Croce Rossa, tra novembre e marzo 2022 più di 22 milioni di afghani dovranno affrontare livelli di crisi o emergenza di fame acuta.
La disperazione è plastica nelle immagini delle code davanti alle banche alle 5 del mattino nella speranza di poter prelevare un po’ di contanti. E in quelle, assai più tragiche, degli ospedali.
Un alto funzionario della Croce Rossa internazionale, Domink Stillhart, ha passato sei giorni negli ospedali di Kandahar, tornando a casa si è detto livido di rabbia: «Nel reparto pediatrico del più grande ospedale di Kandahar, guardi negli occhi vuoti dei bambini affamati e nei volti angosciati dei genitori disperati. Ho vissuto una situazione assolutamente esasperante».
Ancora più esasperante perché creata dall’uomo, mentre la comunità internazionale si volta dall’altra parte. Nell’unità di terapia intensiva pediatrica dell’Ospedale Mirwais di Kandahar, il numero di bambini affetti da malnutrizione, polmonite e disidratazione è più che raddoppiato da metà agosto a settembre. La malnutrizione acuta globale grave e moderata è aumentata del 31% intorno a Kandahar rispetto allo stesso periodo del 2020.
Nella maggioranza delle province afghane la gravità della malnutrizione infantile è fino a tre volte superiore al livello di emergenza.
Chi è, allora, che sta davvero affamando i bambini afghani?
Oggi gli Stati donatori si chiedono come tenere insieme l’obbligo morale di aiutare gli afghani e il rispetto della griglia di valori che fa del diritto allo studio per le ragazze, della rappresentanza politica femminile, della libertà di espressione condizioni irrinunciabili per i negoziati.
È con i nemici che si negozia, con gli amici si parla e ci si intende.
È il principio che muove la diplomazia, è l’impasse occidentale oggi in Afghanistan.
I taleban lo sanno, come sanno che se Stati Uniti e Europa usano il blocco economico come pressione per ottenere un governo più accettabile, e loro, i taleban, per sbloccare quegli stessi soldi useranno lo spauracchio dell’invasione migratoria.
Intanto la gente muore di fame.
Sono passati cento giorni dall’entrata a Kabul dei taleban.
È ora per l’Occidente di provare a raccontare questa storia da un’altra prospettiva.
La guerra è finita. I taleban l’hanno vinta. L’Occidente l’ha persa.
E quando le guerre finiscono non si abbandonano i vinti, ma non si abbandonano nemmeno i vincitori se stanno patendo la fame.
Anche se non ci piacciono.
Soprattutto se il sistema economico che oggi è bloccato dalle sanzioni, e si sosteneva su un sistema assistenziale che aveva reso il Paese dipendente dagli aiuti internazionali l’avevamo costruito noi, cioè gli sconfitti.