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 2021  novembre 25 Giovedì calendario

Breve storia dell’evoluzione culinaria

Un osso, probabilmente di renna, cotto sulla brace, dal quale poi è stato estratto il midollo, con l’aiuto di una pietra. Il battesimo del cuoco è stato quello del fuoco, e viceversa: il primo atto del cucinare è legato in maniera indissolubile alla più grande scoperta del Paleolitico, il controllo del fuoco. È successo tutto, all’incirca, 400mila anni fa; e, da allora, l’alimentazione della nostra specie è cambiata per sempre. La trasformazione del cibo ha trasformato anche gli uomini: dall’Homo erectus all’Homo sapiens è tutto un evolversi della nutrizione che è parallelo a quello del corpo e del cervello, e questo grazie a chi, intorno a quel fuoco, iniziò a scaldare la carne di qualche animale, ottenuta grazie a una caccia coraggiosissima, con l’aiuto delle prime armi rudimentali, o grazie a una altrettanto preziosa attività di charognard, cioè la raccolta dei resti lasciati da altri predatori.
L’evoluzione culinaria ha influenzato a tal punto quella della specie Homo che si potrebbe definire quest’ultimo La scimmia ai fornelli: così si intitola il saggio (Carocci, pagg. 168, euro 14) di Alexandre Stern, studioso e gastronomo francese, secondo cui, per l’appunto, ciò che ci distingue dai nostri cugini primati è l’abilità in cucina. E questa abilità è inconcepibile senza l’utilizzo del fuoco: primo, perché mettere del cibo crudo nel piatto non è cucinare (definizione di cucinare di Stern: scegliere, lavorare e combinare gli alimenti); secondo, perché la cottura consente una pre-digestione che agevola quella nel nostro stomaco; terzo, perché la cottura riduce il rischio di intossicazioni; quarto, perché il fuoco ci ha consentito di mangiare la carne, e il consumo di carne è alla base dello sviluppo del nostro cervello. Infatti, già dall’epoca in cui eravamo semplici raccoglitori e charognard, ma riuscivamo, grazie alle pietre, a estrarre midollo e cervello dalle carcasse dei grandi mammiferi, il nostro cervello è aumentato di dimensioni, da 600 a 1000 centimetri cubici; ma poi, da quando abbiamo iniziato con i primi barbecue, la capacità cranica media della specie è salita a 1350 centimetri cubici. E poi? E poi abbiamo iniziato a raccoglierci intorno al fuoco, a raccontarci storie, a dividerci i compiti lavorativi (cioè quelli legati innanzitutto al nutrimento), a raccoglierci in tribù e villaggi; e, infine, a coltivare e ad allevare, il che ci ha trasformato da raccoglitori a sedentari (anche se qualcuno è rimasto solo allevatore, e nomade) e ha fatto sì che nascessero le prime civiltà. Non solo. Il nostro cervello si è affinato anche in relazione al cibo, come dimostrano gli studi di neurogastronomia, il ramo delle neuroscienze che studia che cosa succede nella nostra testa quando gustiamo del cibo: tutti i sensi, dal tatto all’udito, sono coinvolti in una «esperienza gastronomica», e le nostre scelte rimandano a passaggi evolutivi specifici, come raccontano Carol Coricelli e Sofia Erica Rossi in Guida per cervelli affamati (ilSaggiatore, pagg. 310, euro 22). E tutto questo da qualche pezzo di carne abbrustolito a un fuoco primordiale, carne che in quei millenni lontani era soprattutto di renna. In una grotta di Alicante sono stati ritrovati gusci di mille e cinquecento lumache, mangiate intorno a 30mila anni fa; in Kenya sono emerse tracce ossee di un «banchetto» a base di gazzelle, gru e bufali; vicino a Nizza, invece, intorno a 325mila anni fa si pasteggiava con cervi, cinghiali, uri, conigli, uccelli...
E così la carne, che due milioni e mezzo di anni fa rappresentava soltanto il cinque per cento della nostra dieta, come è ancora oggi per gli scimpanzé, è arrivata a essere presente fra il 30 e l’80 per cento dei nostri piatti di oggi. Un’altra fonte fondamentale di proteine è stata il latte: da circa 9mila anni fa, quando abbiamo iniziato ad allevare bovini e ovini, la popolazione ha iniziato a crescere, grazie allo svezzamento anticipato e alla mortalità ridotta dei cuccioli d’uomo. I cereali, più facili da conservare e trasportare, hanno portato alla creazione della farina e di alimenti fondamentali come le pappe, il pane e la pasta. Per quanto riguarda le piante, delle quattrocentomila specie selvatiche solo poche sono state domesticate dall’uomo e, di queste, appena dodici rappresentano, da sole, l’80 per cento della nostra dieta vegetale. Come è avvenuta la «domesticazione» delle specie? Esiste una mappa storico-alimentare che vede una concentrazione in sette luoghi dei quali il più antico è la Mezzaluna fertile intorno a 12mila anni fa, seguita dall’area del fiume Yangtze e da un centro in Nuova Guinea; poi, intorno a 7mila anni fa, sono apparsi centri nelle Ande, in America centrale e in Africa e, circa 6-5000 anni fa, in America del Nord. Sorprendente? No, perché, guarda caso, una delle prime ricette di cui si abbia testimonianza è stata ritrovata proprio in Mesopotamia, e riguarda... la birra, che viene fermentata e poi filtrata dalla dea Ninkasi. Del resto, il codice di Hammurabi prevedeva l’annegamento per chi cercasse di ingannare i clienti sulla quantità di birra venduta.
Altri «dettagli» degni di nota: quelle prime piante, poi coltivate e selezionate dagli uomini in qualche migliaio di anni, nulla hanno a che vedere con i vegetali e la frutta di oggi (per esempio, le banane erano piccole e piene di semi, patate e carote erano piene di tossine, le arance non esistevano, il nocciolo della mandorla conteneva cianuro); con il latte sono comparsi, in contemporanea, anche il formaggio, la panna, il burro, lo yogurt e il kefir; con il consumo di carboidrati sono spuntate anche le carie nei nostri denti ma in compenso, per millenni, la cucina è stata la prima forma di medicina. Infine, con tanti alimenti a disposizione ci si è messi a inventare modi per conservarli, trasportarli e cucinarli, primo su tutti la ceramica: è intorno a 20mila anni fa, in Asia, che compaiono stufati e piatti in umido, mentre le anfore giravano per il Mediterraneo, ricche di cibi preziosi. E quelli più ambiti, come il miele adorato dai faraoni d’Egitto, sono diventati appannaggio delle élite: popolo e classi privilegiate hanno iniziato a distinguersi anche a tavola.
Tutto questo tesoro di esperienze dell’Homo coquinarius è arrivato fino a noi. «La persistenza nella nostra dieta di alimenti antichi – scrive Stern – è un tratto importante della nostra civiltà: a ben vedere, nel corso dei secoli si è prodotta una sovrapposizione di pratiche alimentari, poche delle quali sono state definitivamente abbandonate nel corso della storia. Oggi noi consumiamo il midollo e la carne alla griglia dei nostri antenati paleolitici, i cereali coltivati a partire dal periodo mesolitico, i prodotti fermentati sviluppati in quello neolitico. In parallelo a ciò, nella nostra cucina attuale possiamo vedere l’erede di tradizioni culinarie legate alle costrizioni con cui l’uomo ha dovuto fare i conti nel corso dei millenni: gli insaccati erano indispensabili alla sopravvivenza nei climi di montagna; il pesce affumicato o fermentato rappresentava una risorsa al di fuori del periodo di pesca; le spezie offrivano una soluzione al problema della conservazione del cibo nei climi caldi e umidi». Certo, il frigorifero, il forno casalingo e l’industrializzazione della produzione hanno cambiato completamente le nostre abitudini ma, proprio oggi che abbiamo tanta disponibilità di alimenti, la cultura e la qualità del cibo, soprattutto per i più poveri, diminuiscono. Un paradosso che è, anche, un invito a ripensare il nostro rapporto con il cibo: più affidiamo la cucina a mani altrui, più perdiamo il contatto con la nostra natura di scimmie ai fornelli, con tutte le abilità del caso...