Corriere della Sera, 25 novembre 2021
Sul «Trattato del Quirinale»
È un pegno di ottimismo in piena tempesta, il trattato che Emmanuel Macron e Mario Draghi sottoscriveranno domani mattina al Quirinale. Perché a nessuno può sfuggire che sull’Europa tirino venti minacciosi. Il Covid spacca l’Unione europea tra Est e Ovest e tra Nord e Sud, mettendo a rischio la ripresa economica. I migranti teleguidati da Minsk (e da Mosca) premono sui confini polacchi, che sono anche quelli dell’Unione. La nevrosi assedia Bruxelles sul declino dello Stato di diritto tra i Paesi membri, a Varsavia come a Budapest. Resta irrisolto il rapporto con l’America di Joe Biden che in politica estera somiglia troppo a quella di Donald Trump. Ne trae slancio la voglia di «autonomia strategica», ma senza danneggiare la Nato e senza dire come. Sulla questione dirimente del che fare con Xi Jinping e con Vladimir Putin, c’è voglia di dialogo ma è evidente la crescente invadenza delle controparti. E le società civili sono scosse da movimenti populisti eversivi.
Non è questo il clima giusto, potrebbe dire qualcuno, per dare valore e credibilità istituzionali a una amicizia transalpina che in passato ha dovuto superare prove molto severe. E invece sì. È il momento giusto perché il punto di riferimento chiamato Angela Merkel sta per uscire di scena. È il momento giusto perché Macron conta di restare in aprile presidente della Francia, e vuole avere le spalle coperte. È il momento giusto, soprattutto, perché a Roma c’è un premier come Draghi, totalmente affidabile, in grado con il suo prestigio personale di rimettere l’Italia al centro delle questioni europee e insieme di garantire lealtà e amicizia all’America. E poi, va tenuta presente una memoria scomoda ma non cancellata. Quella di quando il vicepremier Di Maio, ancora inesperto e mal consigliato, si recò in Francia senza inviti per incontrare un gruppo particolarmente radicale di «gilet gialli» in piena (e violenta) contestazione delle autorità transalpine. Di Maio riconobbe l’errore quasi subito ma Parigi richiamò per consultazioni l’ambasciatore a Roma, un gesto senza precedenti. Per superare l’incidente ci volle la saggezza e il savoir faire del presidente Mattarella, e Macron, che non voleva litigare con l’Italia, non lo ha dimenticato. Quale migliore momento, allora, per codificare una intesa che era stata progettata già nel 2017, ma che è diventata profonda e sincera soltanto ora, all’ombra di Draghi e di Mattarella?
S’intende, un patto di amicizia non presuppone oggi e non presupporrà in futuro una piena identità di vedute e di azioni. All’Italia che firma non piace la Francia che monetizza la sua nuova amicizia con l’Egitto, il ruolo dei francesi nella vicenda Tim è ancora da verificare, è un dato di fatto che gli investimenti reciproci andrebbero equilibrati per sventare sospetti predatori dei transalpini sull’economia italiana. Ma il dialogo tra Roma e Parigi non è stato mai così intenso nell’intero dopoguerra. Francia e Italia ora sponsorizzano insieme una conferenza sulla Libia che si è appena tenuta, mentre le loro ripicche reciproche tra Tripoli e Bengasi erano diventate quasi comiche, oltre che suicide. L’Italia e la Francia non apprezzano il mondo che si va disegnando, due blocchi contrapposti l’uno di democrazie e l’altro cino-russo in pieno spirito di nuova guerra fredda (anche se accompagnata da momenti di dialogo). E per questo condividono l’opportunità di perseguire una «autonomia strategica» europea capace di difendere interessi occidentali non necessariamente unificati. E ancora, l’ecologia, la cultura, i trasporti, la sicurezza interna.
E poi c’è la Germania. La nuova Germania che ancora non ha preso compiutamente forma dopo le elezioni, ma che non deve autorizzare quello che da parte italiana sarebbe un grave errore: credere che, abbracciando l’Italia, la Francia si allontani da Berlino. Credere che il nostro trattato con Parigi equivalga a una revoca di quello franco-tedesco che è da sempre la trave portante dell’Europa, e che è stato rinnovato ad Aquisgrana nel 2019. Certo, anche gli «assi» di pace (dopo tante guerre) possono subire una usura fatta di opinioni o interessi diversi. Ma non scompaiono. Così accadrà quando Italia e Francia faranno fronte comune sulla riforma del Patto di stabilità, e quando si manifesteranno pressioni del Nord Europa — e forse anche del nuovo governo tedesco — per tornare all’austerity dopo gli stravizi dei miliardi erogati da Bruxelles a chi maggiormente ne aveva bisogno.
Sì, sulla volontà di continuare a crescere parleremo con una sola voce. Ma il Trattato del Quirinale (anche se ufficialmente non si chiamerà così per non replicare il Trattato dell’Eliseo) avrà un senso e una convenienza per l’Italia soltanto se sarà chiaro a tutti, come certamente è chiaro a Draghi e a Mattarella, che si moltiplicano gli spazi per il ruolo italiano, ma non cambiano nella sostanza gli equilibri di potere europei.
In attesa di vedere se Macron sarà rieletto, una Italia più vicina a Parigi deve essere anche una Italia più vicina a Berlino, per evidenti ragioni economico-commerciali ma anche per favorire la presenza sulla scena internazionale di un nocciolo europeo il più possibile coeso, magari dotato di una politica estera comune dopo la necessaria introduzione del voto a maggioranza al posto di quello odierno all’unanimità.
Si potrà dire che in questo modo l’Europa si rimpicciolirebbe ulteriormente, dopo l’uscita tuttora conflittuale della Gran Bretagna. Ma il messaggio di fondo dell’intesa italo-francese accanto a quella franco-tedesca è proprio questo: che l’Europa di oggi, se vuole sopravvivere, deve poter contare su legami forti e credibili tra le Nazioni principali che ne fanno parte. Con qualche nuovo arrivo in lista d’attesa, come la Spagna. E sperando che la Germania di domani continui a gettare ponti ma anche a sposare la fermezza quando serve, come ha fatto per sedici anni quella Angela Merkel che domattina, al Quirinale, sarà il convitato di pietra.