il Fatto Quotidiano, 25 novembre 2021
I colloqui di Epstein con gli psicologi in carcere
Il 9 luglio 2019, Jeffrey Epstein, il finanziere dei vip allora detenuto nel Metropolitan Correctional Center di Manhattan, in attesa di giudizio per sfruttamento della prostituzione, viene sottoposto a una valutazione del rischio di suicidio. La psicologa che lo segue scrive nei suoi appunti: “Epstein ha negato categoricamente ogni intenzione o piano suicida”. Nega anche di essere un predatore sessuale, e parla con fiducia della prossima udienza, dicendosi convinto che sarà presto rilasciato e commentando: “La vita è bella!”. “Era proiettato verso il futuro” commenta la terapeuta. Per precauzione resta, in teoria, un ‘osservato speciale’, quindi soggetto a protezione e sorveglianza specifiche; ma il 25 luglio, una settimana dopo che il giudice gli ha negato la libertà su cauzione su cui contava, viene ritrovato riverso sul pavimento della sua cella, con segni sul collo.
Le autorità carcerarie seguono sia la pista dell’aggressione sia quella del tentato suicidio. Ma Epstein nega di nuovo con decisione di voler morire: nelle settimane successive, apparentemente, riesce a convincere psicologi, guardie carcerarie e compagni di prigionia di non avere nessun intento autodistruttivo. A un certo punto dichiara: “Non ho nessun interesse a uccidermi. E poi sono un codardo, ho paura del dolore fisico”. Viene trovato morto, impiccato con le sue lenzuola, solo due settimane dopo, il 10 agosto. In carcere è rimasto 36 giorni. Sulla sua morte fioriranno tutta una serie di teorie alternative, ma il coroner non ha dubbi che si sia ammazzato. Epstein estremo manipolatore, fino all’ultimo istante? Se lo chiedono i quattro autori dello scoop del New York Times, che grazie a una Freedom of Information request andata a buon fine dopo un contenzioso legale con il Bureau of Prison, il dipartimento carcerario, hanno ottenuto 2.000 pagine di note, email, comunicazioni interne, registri dei visitatori, appunti di compagni di detenzione e del personale. È la cronaca della detenzione di Epstein, raccontata da chi, in quei giorni, gli era vicino, o era lì per proteggerlo da se stesso. E, per la prima volta, si sente il punto di vista dello stesso Epstein ormai al tramonto: i suoi rimpianti per il tempo delle feste con le celebrità di tutto il mondo, ora che tutto quello che, si legge in uno dei documenti, un profilo psicologico post mortem, formava la sua identità, cioè soldi, successo, fama, la rete esclusiva di conoscenze, era un ricordo confinato in una cella descritta come squallida e sporca, con la latrina rotta.
E lui era da solo con l’insonnia, la disidratazione, i malesseri e la crescente consapevolezza di non potere più sfuggire alla giustizia, dopo i patteggiamenti milionari degli anni precedenti, mentre fuori si accumulavano gli indizi a sfavore, cresceva l’attenzione mediatica e gli amici di un tempo iniziavano a prendere le distanze.
“La mancanza di rapporti interpersonali significativi, la perdita totale del suo status sia presso l’opinione pubblica sia fra i suoi conoscenti, e l’idea di finire i suoi giorni in carcere – continua la psicologa – hanno probabilmente contribuito al suicidio di Epstein”.
Resta il dubbio che la sua straordinaria capacità di manipolazione gli sia stata utile fino alla fine. I documenti esaminati dai reporter del quotidiano newyorchese chiariscono anche il contesto di quella prigionia, mettendo in luce errori e manchevolezze ai limiti del credibile. Nel file di accettazione è registrato come ‘uomo di colore’ e senza precedenti per reati sessuali, lui che era caucasico e aveva già scontato il carcere, nel 2008, per sfruttamento della prostituzione minorile. All’inizio nessuno sa chi sia, e viene messo nel braccio dei generici. Alcune telefonate risultano non regolarmente registrate o archiviate.
La notte del suicidio, Epstein mente alle guardie dicendo di voler chiamare la madre, morta nel 2004, e invece chiama la fidanzata del momento; viene lasciato solo, malgrado la ‘direttiva esplicita che gli fosse assegnato un compagno di cella’. Sono solo alcune delle irregolarità o negligenze che, dopo la morte, il procuratore generale William Barr aveva definito ‘una tempesta perfetta di errori”.
Il Bureau of Prisons non ha commentato, ma ha sottolineato come mantenere i carcerati in condizioni di sicurezza e umanità sia la sua priorità. Il Metropolitan Correctional Center, famigerato per le sue condizioni disastrate, è ancora temporaneamente chiuso.