il Fatto Quotidiano, 25 novembre 2021
Ritratto al veleno di Paolo Gentiloni
Paolo Gentiloni – pronto anche lui a bruciare nella giostra del Quirinale, candidato nientemeno che da Matteo Renzi in piena battaglia con le guardie, i magistrati e con se stesso – è figura di altissimo profilo, impreziosito dall’antica nobiltà dei conti Silveri di Filottrano, Cingoli e Tolentino, che è roba di remoto Stato Pontificio. E siccome parla da quei secoli lassù, quel che dice arriva dopo un po’, come capita con i collegamenti dallo Spazio, dando modo agli esegeti che lo ascoltano di interpretare il verbo scandito in pensieri profondi, ancorché vestiti di ingannevole semplicità, tipo: “Bisogna lavorare tutti insieme e tenere sotto controllo il debito”. Oppure: “Non si può risolvere localmente problemi globali”. E persino: “È tempo di curare le ferite, ma anche di investire sul futuro”. Pensieri in realtà palindromi che vanno bene sempre, a favore di Giuseppe Conte, oppure contro, oggi dalla parte di Mario Draghi, domani vedremo.
Concetti di così dondolante eloquio – pronunciati in quarant’anni di carriera, da deputato, da ministro, da presidente del Consiglio, da Commissario europeo – da suggerire ai perfidi romani il soprannome che gli calza come un guanto, “Er Moviola”, a dirne l’identità, il carattere, ma anche la persistenza nel paesaggio politico. Nome che il suo amico Ermete Realacci, compagno di ambientalismo e di torneo al circolo del tennis, perfezionò, chiamandolo “Estintore”, per via del fumo che quando vuole sprigiona la sua sintassi agevolando il sonno: “Capace di metterci anche mezz’ora per dire che uno è cretino”.
Lui è tutt’altro. Sebbene la sua radice politica, ai tempi del liceo Tasso, sia tra le peggiori, il Movimento lavoratori per il socialismo, che non erano affatto lavoratori, ma atletici stalinisti di conio milanese, Università Statale e Bocconi, primi anni Settanta, che passeranno in un amen dalle chiavi inglesi ai garofani del socialismo meneghino, specializzandosi nella gestione di concerti e discoteche.
Dall’ecologismo all’incontro della vita: Rutelli
Paolo, che è pur sempre nato nella bambagia liberal, anno 1954, se ne accorge per tempo. Molla l’eskimo per il loden, i Camperos per le Clark. Entra nell’area romana del Manifesto, poi del Pdup, il partito di unità proletaria. Che nonostante le apparenze nominali si addice di più al suo status di nobile con palazzina di famiglia a due passi dal Quirinale e castello a Tolentino, dove i suoi avi riscuotevano le tasse per il papa re, affamando i cafoni. Dopo la laurea in Scienze politiche, vuol fare il giornalista politico. Entra nella redazione di Pace e guerra, settimanale di esteri appena fondato da Luciana Castellina e Michelangelo Notarianni.
Poi Nuova ecologia, il mensile di Lega Ambiente che dirigerà dal 1984 al ’92, fino all’incontro della vita con Francesco Rutelli. Il quale si era lasciato alle spalle l’ingombro di Marco Pannella, padre padrone del Partito radicale che stava trasformando nella sua setta transnazionale, per intraprendere l’avventura arcobaleno di sindaco di Roma. Siamo alla celebre disfida con Gianfranco Fini per il Campidoglio, anno 1993, con Berlusconi Silvio che nella pertinente scenografia dei prosciutti dell’Euromercato di Casalecchio di Reno, fa il suo ingresso in politica, dichiarando che se fosse stato romano avrebbe votato per l’ex missino che si era appena risciacquato la fiamma a Fiuggi.
Vince Rutelli. Con tutta la sua nidiata di portaborse al seguito, Gentiloni, il più preparato, è il manager della campagna, poi il portavoce, poi l’assessore al Giubileo, forse per via delle sue benemerenze pontificie, di sicuro per la pazienza. Con Rutelli si inventa la Margherita che ha radici sempre più moderate e petali cattolici. Fiorisce in Parlamento, deputato nell’anno 2001. Ministro al giro successivo, 2006, secondo governo Prodi, dicastero delle Comunicazioni. Dove prepara una legge di riordino delle tv che prevede una rete in meno alla Rai, la chiusura di Rete 4, abusiva da anni, un tetto alla pubblicità. Berlusconi, Gianni Letta e Fedele Confalonieri scendono in battaglia in nome della democrazia e del fatturato: “È un progetto criminale. Un atto di banditismo”. Ci penserà l’eterno Clemente Mastella a mandare all’aria l’intero governo della sinistra, guadagnandosi abbastanza punteggio da traslocare felicemente a destra.
Riassorbito dall’ombra, prova a candidarsi alle primarie per correre da sindaco, anno 2013, immaginando di avere alle spalle il Partito democratico che pure ha fondato e il suo nuovo nume tutelare, Matteo Renzi. Ma gli manca il carisma in battaglia, gli manca il quid, e dunque arriva terzo su tre candidati, dietro a Ignazio Marino e David Sassoli. È la sua fine?
Neanche per idea: il meglio arriva nel momento più cupo. Appena buttato giù dal cavallo di Palazzo Chigi il povero Enrico Letta, Renzi si intesta il nuovo governo e lo chiama al dicastero degli Esteri, visto che almeno parla tre lingue, sa di geopolitica e specialmente di galateo diplomatico. Dichiara: “La Russia e la Cina non sono minacce. Piuttosto delle sfide”. Con gli Usa “una piena convergenza di vedute”. In quanto all’Europa “deve diventare sempre più protagonista”. Assunto.
Gli Esteri, i cocci di Renzi e il premierato Lexotan
Quando Renzi va a sbattere con il referendum, Mattarella affida i cocci proprio a lui, “Er Moviola”, raccomandandogli di spargere un po’ di Lexotan sulle fibrillazioni del Paese. Lui si succhia le labbra e dice: “Sono qui per aiutare il dialogo”. È la cosa che gli riesce meglio: sopire, troncare, salvare le banche, peggiorare la legge elettorale con il Rosatellum, sopportare la vigilanza di Maria Elena Boschi, la Mata Hari che Renzi ha imposto come sottosegretario a Palazzo Chigi. E infine guidare alle elezioni del 2018 un’Italia non proprio riconoscente, visto il trionfo dei 5Stelle. Conte premier lo spedisce a Bruxelles, Commissario all’Economia. E lui (non proprio riconoscente) ne spara una a settimana: Conte non si fida del Mes, il fondo salva-Stati? “L’Italia dal Mes trarrebbe un sicuro vantaggio”. Conte ottiene i 209 miliardi del Next Generation Eu? “L’Italia deve preparare per tempo i piani. Anzi siamo già in ritardo”. Così in ritardo che appena insediato Draghi, l’Italia torna virtuosa: “Ora abbiamo le carte in regola”. “Con Draghi guideremo la rinascita europea”. “Draghi vuol dire fiducia”. Sembra uno spot, invece è Gentiloni. Assunto.