il Fatto Quotidiano, 25 novembre 2021
Le freddure di John Keats
“Il mondo viene definito da chi non capisce o è superstizioso come una valle di lacrime, da cui si verrà salvati grazie all’intervento arbitrario di Dio. Che ideuzza limitata e circoscritta! Chiamatelo invece la valle di formazione dell’anima e allora scoprirete a cosa serve il mondo. Ho detto formazione dell’anima distinguendo l’anima dall’intelletto. L’intelletto è presente in milioni di persone, ma non è anima finché non si acquista un’identità”, così scrive John Keats al fratello minore George e alla cognata Georgiana, rifiutando l’idea, da Sant’Agostino in poi, secondo cui per cancellare il peccato originale tocca battezzarsi. Urge invece “fare anima”, la poesia è il mezzo, cioè diventare se stessi, comprendersi, puntando a Verità e Bellezza.
La lettera, del febbraio 1819, si inserisce in un momento apice per Keats perché in quella stessa primavera germogliano i suoi capolavori Ode a Psiche, Ode a un usignolo e Ode all’urna greca. La valle dell’anima, da oggi in libreria per Adelphi con la cura di Alessandro Gallenzi, raccoglie la più ricca selezione di lettere di Keats, precisamente 153, mai pubblicata in italiano, ad abbracciare il lustro 1815-20, dalla prima scritta quando aveva vent’anni, un componimento per l’aspirante poeta George Felton Mathew, sino a quella spedita da Roma all’amico Charles Brown a tre mesi dalla morte per tisi, a cui confessa: “Ho la costante sensazione che la mia vita reale sia già passata e che stia vivendo un’esistenza postuma”.
Scritte di getto e con spontaneità, spesso non corrette, le lettere sono per Keats chiave per sganciarsi dalla forma poetica e concedersi l’espressione di idee ed emozioni da condividere con amici e affetti al sicuro da critiche esterne, spesso assai aspre specie verso la sua arte. “È come se il poeta solenne, classicheggiante, spesso anacronistico dell’Endimione, dell’Iperione e delle Odi scomparisse, trasformandosi in un ragazzo comune che conversa nella lingua viva del suo tempo e si lascia andare a giochi di parole, espressioni gergali, freddure e battute sconce”, spiega Gallenzi. Intervallate da citazioni, stralci di conversazioni e brani ricopiati da altri scrittori come Hazlitt, Burton e Shakespeare, per lui maestro supremo, le missive sono anche arricchite da sonetti, ballate, odi. In un alternarsi di toni e voci è ora filosofo in erba, poeta ambizioso, amico fedele, fratello premuroso, amante coinvolto e geloso (per T.S. Eliot quelle indirizzate a Fanny sono “le più importanti mai scritte da un poeta inglese”), e così l’epistolario si fa “autobiografia spirituale” da cui “emerge la figura di un giovane generoso, socievole, in continuo fermento e costante trasformazione, insoddisfatto e consapevole dei propri limiti, incessantemente alla ricerca del bello e della perfezione poetica”.
Le lettere sono principalmente destinate agli amici intellettuali come John Hamilton Reynolds e Percy Shelley, ai fratelli, alla sorella, “devi dirmi tutto quello che leggi, fossero anche sei pagine alla settimana… Dobbiamo conoscerci intimamente, in modo che io possa non solo, mentre cresci, amarti come la mia unica sorella, ma confidare in te come nella mia migliore amica”, alla “fulgida stella”, l’amata Fanny Brawne. Con lei visse un fidanzamento travagliato, doloroso e struggente ma non fu sempre sdolcinato come si suol credere. Si dimostrava infatti talvolta duro, come quando le scrive: “Non ho avuto il tempo o la libertà di pensare a te e forse è stato meglio così… Ora che sto andando a gonfie vele, preferirei continuare a veleggiare senza interruzioni per un altro paio di mesi”. Tradotto: non voglio essere disturbato. Di questa relazione tenuta segreta da Fanny per sessant’anni conosciamo solo la voce di lui perché le epistole che lei gli spedì furono bruciate dagli amici di Keats su sua richiesta. Lei invece le conservò tutta la vita. Sulla sua lapide Keats scelse “Qui giace un uomo il cui nome fu scritto nell’acqua” come epitaffio, motteggio a chi pensava sarebbe stato dimenticato in fretta. Si sbagliava. Keats vive e questo volume, un tesoro, lo dimostra. D’altronde, “una cosa bella è una gioia per sempre”.