Un’Odissea , Mendelsohn racconta la decisione catartica di riflettere su tre personaggi accomunati da una sorte di esilio, sofferto sul piano personale quanto fecondo da un punto di vista artistico. Nel tracciare i ritratti di Eric Auerbach, François Fénelon e W.G. Sebald, Mendelsohn alterna la riflessioni su cosa abbiano significato per lui ossessioni giovanili come quella dei modelli ad analisi storiche e letterarie, la più appassionante delle quali è relativa a Proust. Lo sfondo è ancora una volta l’ Odissea , imprescindibile anche nel percorso esistenziale dei tre personaggi, presentati da un analogo incipit: «Uno straniero arriva in una città sconosciuta dopo un lungo viaggio. Da qualche tempo è stato separato dalla sua famiglia; da qualche parte c’è una moglie, forse un figlio. Il percorso è stato travagliato, e lo straniero è stanco. Si ferma davanti all’edificio che diventerà la sua casa e poi comincia ad avvicinarsi».
«È una descrizione che vale per i tre personaggi, ma anche per Ulisse », mi spiega nella sua casa vicino al Bard College, dove insegna. «Inoltre l’idea di tre personaggi distinti che compongono un’unità suggerisce per me anche l’idea della trinità».
Che definizione darebbe del suo libro?
«Non credo sia facilmente ascrivibile a una categoria: è una combinazione di generi, in realtà non molto diversa da quella che ho utilizzato nei miei libri precedenti, con l’esclusione di quelli di pura critica letteraria. Sarei portato a parlare di viaggio interiore».
Come ha individuato i tre personaggi?
«Ho iniziato da loro, era molto tempo che volevo scriverne: ero affascinato dalla sorte analoga e dal rapporto con la creatività di tre uomini diversissimi vissuti in periodi e luoghi lontani, che li ha portati in posti del tutto inaspettati».
Il libro suggerisce che il destino può prevalere sul libero arbitrio.
«È proprio così, e si tratta ovviamente di una rivelazione dolorosa, specie per chi ha una concezione trascendente dell’esistenza. Tuttavia è anche lo stimolo per una riflessione sul rapporto tra fato e azione e, da un punto di vista letterario, tra creatore e personaggi: sono liberi? Da classicista e studioso della tragedia greca sono portato ad affrontare il momento in cui un personaggio incontra il fato, ma si tratta di un problema sia esistenziale che artistico, che prescinde dalla meccanica della narrazione».
Auerbach scrive “Mimesis” a Istanbul, e conia il termine Weltliteratur, letteratura mondiale.
«C’è qualcosa di tragicamente ironico nel fatto che scrive un testo fondamentale sull’occidente nel momento in cui l’occidente si sta distruggendo. La grande letteratura è tale quando riesce a essere universale anche quando è locale, e prescinde dal luogo in cui è realizzata come dai lettori per cui è scritta».
Lei contrappone la tecnica omerica “ottimista” allo stile ebraico “pessimista”.
«Personalmente oscillo tra i due opposti: vorrei credere nell’impostazione greca, ma non riesco a prescindere dalla storia della mia famiglia sterminata nell’Olocausto. So tuttavia che la seconda rende possibile la prima, e le due non si trovano ai due estremi di una linea, bensì costituiscono gli archi di un cerchio ininterrotto».
Lei scrive che Auerbach è «liberato, come era accaduto a Dante, grazie all’esilio».
«È così: il dolore dell’esilio rende possibile la creazione artistica.
L’etimologia del nome Odisseo è odyne , dolore: “è l’uomo del dolore, che soffre e fa soffrire gli altri”. In seguito Dante e poi Kavafis suggeriscono che egli è causa del girovagare, e che la sua grandiosità è proprio in questo viaggio di conoscenza, che sembra addirittura prescindere dal ritorno».
Su questo riflette anche François Fénelon nelle “Avventure di Telemaco”.
«È un libro meraviglioso ed è stato tra i più letti del Settecento, e poi amato enormemente da Voltaire, Rousseau e Thomas Jefferson: lo cita anche Proust. Ma la gloria letteraria di questo magnifico scrittore, che nella vita era arcivescovo, arrivò insieme alla sua disgrazia: nel libro ci sono dei riferimenti critici a Luigi XIV, che lo mandò al confino».
Sebald è l’unico dei tre personaggi che si è autoesiliato.
«Il padre era un soldato della Wermacht, ma lui era nato nel 1944 e non aveva alcuna responsabilità rispetto al regima nazista: è interessante notare come sia colui che approda a una visione esistenziale più pessimista».
Lei cita la famosa battuta di Adorno: «dopo Auschwitz scrivere una poesia è un atto di barbarie».
«Ovviamente non è vero, ma bisogna contestualizzarla e comprenderne l’intimità: Adorno aveva davanti agli occhi un abominio che aveva minato la civiltà nel profondo. Una delle esperienze più strazianti che abbia mai vissuto sono state la visita all’antro nel quale si erano nascosti alcuni miei parenti nel tentativo di sfuggire alla persecuzione hitleriana e poi la visita al campo di sterminio di Belzec: un enorme spazio vuoto dove è possibile camminare solo sul perimetro.
All’interno sono state gassate 600.000 persone».
Una persona che ha intervistato per “Gli Scomparsi” le ha detto che «non è un ottimista, ma un sentimentale».
«Sì lo sono, e non me ne vergogno.
Anzi credo che chi ama una buona storia in qualche modo lo sia sempre, ed è uno dei temi di questo libro».